Di conflitti di interesse si discute spesso, direi sempre di più. Benché emerga soprattutto in ambito politico, il tema ha però radici profonde che si manifestano anche in molte altre situazioni in cui sono in gioco i valori del vivere e del convivere.
Una radice importante dei conflitti etici che riguardano tutti noi sta proprio nel duplice volto del vivere. Perché per scegliere il proprio cammino è necessario appartenere a sé stessi, vivere il contatto intimo e personale con il valore della propria vita e desiderare affermarlo. Nello stesso tempo, però, è necessario percepire anche la nostra appartenenza al mondo che ci ospita con i suoi valori e ci invita a condividerli. Questo duplice volto del vivere richiede a volte equilibri difficili che espongono ai rischi di un conflitto interiore.
Un esempio illuminante, che riguarda un po’ tutte le sfere della convivenza, concerne il rapporto tra competizione e collaborazione. A ragione si afferma che il nostro mondo diventa sempre più competitivo. Ecco allora la domanda: in un contesto che esalta la cultura della performance, dell’efficienza, della prestazione migliore e vincente, come può esprimersi il bisogno di sempre migliorarsi? Che significato può assumere questo desiderio che ci sollecita e ci accompagna durante tutta la vita? Siamo forse sempre più orientati a concepire la vita come una gara, come una continua competizione?
In realtà qualche segnale che le cose stiano proprio così ci viene, ma è solo un esempio tra molti possibili, fin dall’infanzia. Basta guardare come i bambini vengono accolti nel mondo dello sport. Qui gli aspetti ludici non sono distinguibili dagli aspetti competitivi, seppure a volte concepiti come una benefica gara con sé stessi.
Sullo sfondo di atmosfere competitive non sempre indolori, il desiderio di affermarsi migliorando le proprie prestazioni mantiene comunque molti aspetti positivi, alimentati da quell’idea di progresso che ha profondamente segnato la cultura della modernità. In questo senso, pur con le difficoltà di un suo corretto esercizio, la tanto discussa meritocrazia sembra esprimere uno dei volti più sani della competizione.
Le derive sono tuttavia sempre in agguato e il valore insito nel desiderio di migliorarsi può trasformarsi nel desiderio di primeggiare ad ogni costo, ad ogni prezzo, come mostrano le sempre più frequenti tristissime vicende di mobbing, pronte a risuscitare la prospettiva hobbesiana di guerra di tutti contro tutti.
Sono derive individualistiche che trasformano e soprattutto tradiscono il valore dell’individuo e delle sue responsabilità. Derive che entrano in conflitto con un altro valore del vivere e del convivere, ovvero con la condivisione di mete comuni basate sulla collaborazione.
Unire lo spirito competitivo con quello collaborativo pare una bella scommessa etica che fonda tanto l’esercizio democratico del potere quanto l’impresa scientifica, fino alle forme più minuscole di altri possibili «giochi di squadra». Una scommessa etica bella, ma molto difficile da praticare.
Le vicende di questo equilibrio difficile e delicato, sempre esposto al conflitto, hanno attraversato la nostra civiltà fin dalle sue origini. L’etica eroica, quella dei poemi epici, conteneva di fatto un’esaltazione della hybris, ovvero della dismisura: coraggio, audacia, ma anche tracotanza nell’affermazione di sé degli eroi omerici.
La cultura della polis elabora in seguito un orizzonte etico che tende a superare questa visione, ancora sostenuta dai sofisti nel dibattito con Socrate. Un nuovo orizzonte in cui si afferma il valore della misura e il senso del limite nell’espressione e realizzazione di sé.
Il valore della misura permette di contrastare quel desiderio di hybris mai completamente sopito che spinge gli uomini a quelli che ancora oggi chiamiamo deliri di onnipotenza.
È forse la premessa di una vita davvero felice, riuscita nell’espressione delle proprie potenzialità, quella in cui la propria forza interiore riesce a sbocciare e ad espandersi in modo armonioso.
Platone Aristotele Epicuro, seppure in modi assai diversi, indicano una via comune verso forme armoniose di realizzazione della propria vita.
La modernità ha in seguito rielaborato questo orizzonte di pensiero con l’idea forte di una comune appartenenza come misura della nostra umanità: limite ma anche sorgente di un vivere e convivere felici.
La dismisura come controvalore individualistico ha attraversato comunque, come una spina nel fianco, tutta la nostra storia. Lo abbiamo appena ricordato a proposito dell’attuale ricomparsa dei lupi hobbesiani. Il pasticcio etico è di nuovo servito.