A passo Sioux, lungo e silenzioso, per via dei miei mocassini del Minnesota, in una manciata di minuti percorro tutta rue Barthélemy-Menn (pittore paesaggista non male stile paysage intime, specialista di querce malinconiche) che sfocia sull’avenue de la Roseraie. Dove oggi ho appuntamento, in contemporanea alla presenza di tulipani vari nelle aiuole o nei vasi su alcuni balconi, con un curiosissimo edificio brutalista a forma di tulipano.
La Tulipe, così, all’epoca, viene soprannominato dagli abitanti del quartiere quando nel 1976 spunta al sessantaquattro di questa strada alle spalle dell’ospedale. Sede della Fondation pour recherches médicales, oltre all’incredibile slancio tulipifero in beton, le vetrate multicolori a specchio, stupiscono non poco. Ma sono gli origami in beton, alla base dell’audace tulipano brutalista di Ginevra (382 m), a incantarmi una tarda mattina ai primi di aprile. Imbambolato dal beton di questi frattali, rimango così, ancora un po’ dall’altra parte della strada, in bilico sul ciglio del marciapiede. Eppure, forse, tutto questo stupore si attenuerebbe senza il connubio delle finestre speciali dalle tinte pastello dove si riflette il paesaggio. Mutevoli a seconda della luce e delle angolazioni, la cui distribuzione cromatica ha quasi misteriosamente l’armonia di un Klee, provengono da Pittsburgh.
La Pittsburgh Plate Glass, fondata nel 1883, è l’artefice di quel tocco scintillante-catturanubi dei primi grattacieli storici americani. Cumulonembi si specchiano ora sulla superficie rosa zucchero filato delle finestre a tutto vetro. Sei finestre giallo senape, quindici turchese, completano il quadro. I trentacinque rettangoli rosa zucchero filato o confetto, a tratti un po’ foschi dall’usura, a momenti, riflettono in viola, gli squarci azzurri di cielo. Prima di perdermi nei riflessi dei rami di pruni giapponesi in fiore e in altre divagazioni paesaggistiche più intime, attraverso la strada per osservare più da vicino l’opera di Jack Vicajee Bertoli.
Nato a Bombay nel 1931 e trapiantato per anni qui a Ginevra dove ha studiato architettura, si è rifugiato in Spagna per un clima più clemente. Presente sul cantiere di Chandigarh, la città utopica di Le Corbusier costruita negli anni cinquanta, questa qui è la sua unica opera degna di nota. L’idea germina negli anni sessanta, tra l’entusiasmo di Anita Oser Pauling – pronipote di Rockefeller e moglie di Linus Pauling Jr., figlio del Premio Nobel in chimica 1954 e per la pace 1962 – e quello di Gaston Zahnd, endocrinologo e cognato di Jack Bertoli che dirigerà questo centro per vent’anni. «Eccezione sculturale perduta oggi in un tessuto urbano incoerente» la definisce Maïlis Favre in uno dei rari testi rintracciati a proposito della Tulipe, apparso sulla rivista semestrale di architettura «Faces».
Mi avvicino al piedistallo-stelo-scultura che regge quattro piani e la cui sfaccettatura è da diamante. La porta d’entrata è d’ottone od ottonata come i bordi delle finestre. In alcuni punti, sulla facciata, il cemento scorticato dal degrado di questo materiale non eterno, svela l’armatura. Si era pensato anche a delle fioriere, però i ricercatori attuali non devono avere troppo il pollice verde; dentro ci sono solo dei tristi lauri striminziti. La superficie scultorea degli origami-frattali in beton, come spesso accade, è abbellita dal passare del tempo e le intemperie, creando così una patina emotiva che fa impazzire i fini conoscitori del brutalismo. Come la fotografa zurighese Karin Bürki che ha realizzato una mappa – chiamata carte brute – del brutalismo in Svizzera con cinquanta costruzioni tra le quali non poteva mancare questa stravagante di Jack Bertoli, la quale riceve persino un posto d’onore: sul retro della cartina giganteggia in formato poster. E cogliendo anche, in questo capolavoro del brutalismo floreale, la sottile importanza – quasi come un lato femminile essenziale al suo equilibrio – delle vetrate colorate a specchio: «una vacanza per la retina».
Ritorno sul marciapiede opposto, davanti al reparto pediatria, il punto di vista migliore per contemplare La Tulipe. «Artichaut», carciofo, ho trovato scritto in un articolo dell’epoca sul «Journal de Genève». Mentre un mio vecchio amico attore in declino, incontrato per caso passeggiando più tardi senza meta e intervistato al volo in proposito, visto che ha abitato una vita da quelle parti, mi risponde: «Ah, sì, la casa di Goldrake».