Il trionfo di Pinocchio

/ 19.02.2018
di Franco Zambelloni

Il linguaggio, ha detto qualcuno, è stato inventato per mentire; benché questa affermazione sia senz’altro esagerata, contiene anche molto di vero: molti animali sanno fingere e simulare, ma la menzogna vera e propria è possibile solo col discorso. Basta scambiare una parola per un’altra, o creare un velo di ambiguità che faciliti l’equivoco, e il gioco è fatto. Come scriveva Paolo ai Corinti, «se non pronunziate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlerete al vento!». In questi ultimi tempi, ad esempio, è circolata nel Ticino e nei Grigioni la notizia di un sedicente Istituto universitario che «universitario» non era, ma che, arrogandosi il titolo, ha truffato non pochi studenti convinti di accedere a un curriculum sfociante in un diploma di laurea.

Il fatto mi richiama alla memoria un divertente racconto di Achille Campanile: un tale si presenta in un albergo e porge il suo biglietto da visita: «S.E. Prof. Ing. Avv. Comm. Pasini». Impressionato da tanta dovizia di titoli, il portiere si affretta a chiamare il direttore, che subito accorre a salutare «Sua Eccellenza». Ma l’ospite precisa che non è affatto un’Eccellenza: S.E. sta per «Silvio Enea». Il direttore allora lo chiama Professore, ma quello chiarisce che «Prof.» sta per «Profugo». E così via: Ing. è l’abbreviazione di «ingegnoso», «Avv.» di «avventizio», «Comm.», di «commissionario».

Sì, con le parole si possono fare molti scherzi. È propria del linguaggio la facoltà di schiudere orizzonti di ambiguità, dilatando il senso al di là del valore semantico. L’uso di un linguaggio figurato e delle metafore, in particolare, è il modo ottimale per introdurre affermazioni ambigue – che possono essere vere, ma anche false. Mi diverto con qualche esempio, riflettendo su comunissimi modi di dire: un uomo che dice di essere «stanco morto» mente senza dubbio, se si prescinde dalla metafora; al massimo può essere «stanco moribondo». L’espressione «Ti do volentieri una mano», se intesa alla lettera, può essere detta solo da un autolesionista bramoso di amputazioni. La moglie che dice al marito «Sei un tesoro» dice senz’altro il vero se l’uomo è molto ricco; altrimenti, la metafora può anche esprimere una dichiarazione d’affetto della cui verità è possibile dubitare. Il politico che dice di amare l’Elvezia forse ha un’amante con questo nome. E così via.

Ora poi che siamo nell’era della comunicazione ininterrotta, dove i discorsi e le notizie ci sommergono, è realistico pensare che la realtà diventi sempre più vaga e camuffata. Lasciamo perdere le fake news, le bufale, le smaccate invenzioni che circolano in Rete. Basta considerare la pubblicità: quando una voce dolce e suadente mi sussurra dal televisore che un alimento inscatolato è stato «fatto con amore», faccio fatica a credere che un oggetto di consumo prodotto in migliaia e migliaia di esemplari sia nato da un affetto altruistico. Ma è soprattutto la politica che spesso costituisce il luogo delle mezze-verità, delle mezze-bugie o delle menzogne tutte intere.

Non è certo una novità: nel Seicento il cardinale Giulio Mazzarino, reggente di Francia, scrivendo il Breviario dei politici, come primo imperativo per l’uomo di Stato poneva questo: «Simula e dissimula»; fingere e occultare i fatti costituivano dunque gli strumenti del potere. Nel Settecento Jonathan Swift, nell’Arte della menzogna politica, delineava la figura del «bugiardo politico», al quale basta essere creduto per un’ora: chi gli ha dato retta può poi anche ricredersi, ma ormai è troppo tardi. Tutta la storia passata mostra una strategia della menzogna come strumento di potere che si prolunga per millenni, fino al presente: come la falsa Donazione di Costantino, i falsi Protocolli dei Savi di Sion, le interminabili bugie di Hitler, ma anche quelle di Tony Blair e di Bush sulle armi di distruzione di massa irachene. Oggi tutti parlano di amore, pace, libertà, eguaglianza: ma se poi si va a vedere cosa segue alle parole, non sempre si ha un’impressione di coerenza. Come diceva Bergson, «non ascoltate ciò che dicono, guardate ciò che fanno»: ma anche guardare è ormai diventato più difficile, oggi che le immagini possono essere costruite, selezionate e contraffatte per qualunque scopo.

Un tempo, uno degli elogi migliori che si potessero fare di un individuo era dirlo «uomo di parola»: «Ein Mann, ein Wort», al modo dei tedeschi. Si può ancora dirlo? Forse resta vero solo il codicillo: «Eine Frau, ein Wörterbuch».