Inizia l’estate balneare e ci risiamo con gli squali. Sempre gli squali, soltanto gli squali. Giorni orsono un noto quotidiano da questa parte delle Alpi ha dedicato un’intera pagina al resoconto di una curiosa ricerca che sta facendo il giro del mondo mediatico dentro e fuori dal web. Un ricercatore italiano in forza ad un’università inglese sta mappando la presenza degli squali in un certo tratto di mare a partire dalle tracce di DNA che questi si lasciano dietro nel loro girovagare su e giù pei Sette Mari. Frammenti di pelle, uova, saliva e altre deiezioni vengono vagliate con tecniche sofisticate per determinare se nelle ultime ventiquattro ore – questa la soglia cronologica di applicabilità della tecnica – la specie di squali X sia o meno passata da quelle parti. Insomma: un po’ come quando da bambini si andava al mare e si faceva a gara a chi avvistasse le targhe automobilistiche più rare (ricordo che una volta stravinsi con un San Marino).
Sì perché lo scopo della ricerca – a quanto è dato leggere – è di mappare la frequenza dei passaggi degli squali in un’area di mare X ed individuarne le specie a rischio di estinzione. Cosa comporti per l’efficacia del genetico censimento il fatto che una specie di squalo Y frequenti per arcane sue proprie ragioni aree altre rispetto al braccio di mare X non è riportato nell’intervista all’Autore della ricerca, ma i lettori criticoni concedano il beneficio d’inventario fiduciosi che una ratio scientifica da qualche parte pure ci sarà. Perché poi – e qui sta il punto altropologico della questione – l’intervista al suddetto prende ad un certo punto una piega improvvisa virando da questioni strettamente scientifiche per introdurre il tema – forse l’unico che interessa al lettore: «Lei usa il DNA (che viene raccolto in bottiglie d’acqua-campione) perché ha paura degli squali?». La risposta – indovinala grillo – è «certo che no». Ovvero si usa quella tecnica perché più efficace di quelle basate su avvistamenti ed altre forme di habeas corpus ravvicinate dispendiose di tempo e di mezzi. E poi il colpo di grazia finale: dopo tutto gli squali sono per la maggior parte innocui: «È forse più pericoloso nuotare con un delfino che può causare incidenti solo per la sua voglia di giocare». Uno può immaginare la scena: letto questo il lettore balneare ripone il giornale e sia avvia alla battigia per il bagno, rassicurato che – come il Lupo Cattivo – anche gli squali sono buoni.
Squali e DNA finalmente assieme. Due capisaldi dell’industria culturale di massa e globalizzata della tarda, tardissima modernità. I primi diventano esponenti di punta di una rappresentazione della Natura che cerca una sua visibilità mediatica rimettendo comunque in gioco le paure oscure delle fantasie infantili, laddove l’infantilizzazione dell’adulto lettore funziona pressapoco secondo il meccanismo: «lo so che hai paura degli squali (o tantovale degli immigrati, degli zingari, del funzionario delle tasse e degli alieni), ma il Grande Fratello – che di queste cose se ne intende – ti rassicura e dimostra che gli squali sono statisticamente innocui. Tanto da essere meno pericolosi dei delfini». Col risultato – ovviamente – che l’adulto infantilizzato avrà paura tanto degli squali quanto dei delfini. Per quanto riguarda il DNA, la vulgata che lo vede ormai condimento immancabile per ogni sorta di argomentazione ne fa una sorta di demiurgo responsabile di caratteristiche culturali e specificità comportamentali che, proprio per essere biologizzate, divengono innegabili ed inoppugnabili. Così il torneo per la Coppa del Mondo di football ci ha insegnato che la fantasia di gioco basata sull’invenzione improvvisata dei Carioca – insita nel DNA brasiliano – alla fine della fiera poco conta rispetto al gioco macinato e macinante dei Panzer tedeschi, vittime a loro volta di un DNA calcistico per cui basta un corto circuito organizzativo che l’intera baracca vada in crisi. E ce ne è stata di questa roba anche per i Confederati: gioco preciso, puntuale, corale e referendario che però, alla fine poco può contro aggressività e tenuta atletica – aquile kosovare nonostante. E passi l’ambito sportivo dove «il biologico» dovrà pure in qualche modo contare.
Il problema si fa grave quando l’inevitabilità oggettiva dei codici genetici viene trasferita nel campo del sociale e del politico: «Non è nel DNA della Lega scendere a compromessi su questioni fondamentali come l’immigrazione clandestina», tuona il Ministro degli Interni della Penisola. «Il biologico» è fondante e immutabile, trascendente nel senso kantiano del termine – ovvero condizione e non conseguenza di scelte che sono invece culturali e storicamente determinate. Naturalizzando ciò che è culturale, dunque opinabile, transeunte e provvisorio (poiché la cultura è il Grande Mutante della Storia) l’appello al DNA diventa ultima ratio della ragione di una modernità incompiuta, in ritardo ormai rispetto a se stessa: scalzati gli ancoraggi della Religione d’antan, il ricorso alla Natura diventa il Forte Apache di un’ultima (e vana?) resistenza – ricerca ormai esausta per un alcunché di solido in una società liquida, dove squali e delfini nuotano allegramente assieme sugli schermi delle TV.