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Il trauma che blocca ogni slancio vitale

/ 22.03.2021
di Silvia Vegetti Finzi

Gentile Silvia,
mia mamma, dopo essere stata per due anni ospite di una Residenza Sanitaria di Bergamo, è tra i morti per Coronavirus che un anno fa, il 18 marzo del 2020, sono stati, prima raccolti nella Chiesa del Cimitero, poi trasportati con una decina di camion dell’esercito, in varie città della Lombardia e dell’Emilia che si erano rese disponibili alla cremazione. È stata per tutti una scena tristissima vedere, in televisione, sfilare nella notte quel lugubre corteo ma per me, che sapevo esserci mia mamma, morta in solitudine, senza una carezza, senza poter vedere per l’ultima volta le sue figlie, è stato uno shock. 

Ora le sue ceneri sono tumulate nel Cimitero del Comune dove vive mia sorella e possiamo andare a visitarla con un fiore e una preghiera. Eppure, passato un anno, non riesco a trovare la serenità perduta, sento la sua mancanza in ogni momento della giornata e spesso mi sveglio di notte con l’impulso di andare da lei. È tale la tristezza che non posso sorridere anche quando i miei figli, che hanno 18 e 16 anni, tentano in ogni modo di tirarmi su di morale.

Mio marito avrebbe bisogno anche lui di aver accanto una moglie serena ma, mi creda, non ce la faccio. Ho preso i medicinali che mi ha ordinato la dottoressa ma se le dicessi che mi fanno effetto, direi una bugia. Eppure quando morì mio papà, che amavo più di ogni altro al mondo, non ho avuto la stessa reazione, ho sofferto, è vero, ma poco per volta me ne sono fatta una ragione. Perché adesso non riesco a risollevarmi? Le chiedo conforto perché, seguendola da tanti anni, ho fiducia nelle sue parole. Grazie, con tanti auguri. / Cinzia

Cara Cinzia,
i lutti hanno sempre costellato la nostra vita ma, in tempi di emergenza sanitaria, è accaduto quello che storicamente era avvenuto solo in tempi di guerra, sui campi di battaglia: che una generazione fosse decimata in poco tempo senza il conforto dei propri cari o di una persona soccorrevole. Chi sta per mancare guarda di solito il volto di chi che gli sta accanto e, con lo sguardo supplica un’espressione di pietà e di affetto. Cosa che molti infermieri hanno fatto ma, bardati dalla testa ai piedi per evitare il contagio, non hanno certo potuto esprimere l’intensità della loro partecipazione. 

Poiché la medicina palliativa interviene per lo più a sedare l’angoscia, è probabile che sua mamma se ne sia andata senza accorgersene. È invece lei a vivere, a posteriori, un’assenza che blocca ogni slancio vitale. Le persone amate sono dentro di noi, fanno parte della nostra identità, popolano la nostra mente, per cui è una buona cosa che lei sogni sua mamma e senta l’impulso di raggiungerla e abbracciarla. È un modo con cui l’inconscio elabora il lutto e tenta di convincerla ad accettare l’ineluttabile, a tornare alla sua vita, agli affetti che l’attendono.

Capisco che la morte di suo padre sia stata più vivibile perché lei c’era, lo ha visto andarsene, ha vissuto quel passaggio concretamente e la realtà aiuta la mente a «farsene una ragione». 

Da sempre la comunità ha partecipato al travaglio del lutto con cerimonie di commiato, con riti di condivisione del dolore. Nella tarda modernità però, la società degli individui, narcisista e competitiva, ci aveva ridotti a una folla solitaria, a una somma di Io, e sembrava difficile ritrovare un sentimento di unità. Eppure l’emergenza ci ha trasformati: ci ha resi solidali, attenti al dolore degli altri, più capaci di metterci nei loro panni, di aiutarli e confortarli.

Anche adesso, in tempi di distanziamento, non solo fisico ma affettivo, non sono mancate verso le vittime del Covid espressioni di con-doglianza. Le foto dei camion che sfilano nella notte hanno fatto il giro del mondo sino a rappresentare una ferita dell’umanità. Lei, cara Cinzia, non è sola, tutti le siamo accanto perché il suo dolore è anche il nostro.

Tuttavia sentimenti universali, giusti e opportuni, non possono sostituire l’empatia che ha bisogno di vicinanza fisica, di prossimità comunicativa, di espressioni facciali, di gesti, di parole, di calore. Una condizione difficile da realizzare nel fuoco di una pandemia che comporta l’isolamento. Ma credo che tra i familiari di quelle vittime, tra cui sua mamma, si sia costituito un senso di comunanza, di solidarietà e di affetto reciproco che può, per quanto possibile, temperare il dolore.

L’impegno perché eventi così negativi non avvengano mai più può sciogliere le energie immobilizzate dal trauma e indirizzarle verso mete positive. La speranza è l’unico modo per contrastare la disperazione e aprire l’orizzonte del futuro. Lo dobbiamo ai nostri figli, ai ragazzi che stanno procedendo, tra mille ostacoli, verso l’età adulta.