Dalla stazione di Rolle m’incammino, di buon passo, verso i vigneti di Chasselas a denominazione Féchy. Attraverso questi vigneti pettinati, in mezzo ai quali spuntano alcuni pavillon da vigna più spontanei, arrivo a Bougy-Villars.
Finito dentro una spirale di studio ossessivo attorno alle folies architettoniche da giardino, a salvarmi è saltato fuori, l’altro giorno, uno strambo tempietto costruito da queste parti, nel 1826, per Benjamin Delessert (1773-1847). Banchiere fondatore delle casse di risparmio francesi, filantropo, industriale, naturalista il cui erbario – donato al giardino botanico di Ginevra per via della sua amicizia con Augustin-Pyramus de Candolle – era ai tempi forse il più ricco al mondo e non da meno la sua collezione di conchiglie. Il suo nome, spesso associato al metodo di estrazione dello zucchero dalle barbabietole, riaffiora in una lumaca di mare scoperta in Madagascar (Lyria delessertiana) e abbraccia perfino tutta una famiglia di alghe rosse marine: le Delesseriacee.
Da Bougy-Villars, una via ripida sale fino alle ultime case dopo le quali, in un prato, appare l’azzurro sottile della cicoria selvatica (Cichorium intybus). Entro nel bosco, il sentiero s’impenna. E così, dopo un’oretta abbondante da Rolle, sbuco su in cima al Signal de Bougy dove in un attimo trovo il tempietto dell’amore (707 m). Chiamato così perché ispirato un po’ dal Temple de l’Amour nel giardino all’inglese del Petit-Trianon a Versailles.
Va da sé, tra quel capriccio architettonico del 1778 – tutto in marmo bianco, scultura di Eros (Dio dell’amore) al centro, interno cupola scolpito con centoventi rosoni eccetera – per la regina Maria Antonietta e questo tempietto monoptero quasi folclorico, ce ne corre. Dodici colonne doriche di un bianco sporcato, tetto in zinco con pennacolo sferico e banderuola, scritta gotica rosso ketchup sull’architrave: Dieu que tes Oeuvres sont belles. Iscrizione credo posteriore a Delessert, riferita forse al panorama.
Il pavimento è in sampietrini. C’è una panchina rusticale in legno laccato, sulla quale, un bel pomeriggio di tempo incerto e mutevole a inizio estate all’ora di merenda, mi abbandono. Tracce del tempietto di Delessert, la cui famiglia è originaria del Vaud e qui nei dintorni aveva acquistato un maniero poi regalato al fratello, le ho trovate in una nota in fondo a un articolo uscito nel 1985 sulla «Zeitschrift für Schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte» nel numero dedicato al panorama. «Aussichtspavillon» viene definito lì, vale a dire un belvedere. Del resto, da qui, la vista sul Lemano con tanto di Monte Bianco e così via, non scherza mica. Una scritta interna, sempre sull’architrave, conferma la data, 1826, e il nome di Benjamin Delessert. La cui mamma, tra l’altro, era la destinataria delle Lettres élémentaires sur la botanique (1789) di Rousseau. Mentre il suo giardino parigino a Passy è stato uno dei primi, nel 1824, a ornarsi di uno chalet bernese d’ispirazione roussoiana, innescandone così, la moda. Questo tempietto-gazebo, dove adesso, per merenda, divoro un’anguria, lo si rintraccia, più delicato, in un acquarello del 1844 di Jakob Samuel Weibel.
I due restauri, soggetto di una terza iscrizione, del 1935 e del 1973, devono essergli stati fatali. Già un miracolo però, per come va il mondo, che sia sopravvissuto. Fortissimo l’odore del tiglio ai margini del boschetto che è forse la parte più lieta del belvedere, diventato, di colpo, riparo per la pioggia che ora viene giù che Dio la manda. Una quarta scritta ricorda che è proprieté de la ville de Aubonne. Paesino non lontano di tremila anime circa dove nel suo castello viveva l’avventuriero Tavernier, noto per alcuni leggendari diamanti di Golconda.
Stranianti, per la côte lemanica, i pini ultracentenari piantati all’epoca da Delessert. Alpinizzano un po’ quest’angolo di mondo dove si vedono diversi dinosauri deleteri del parco-avventura. Ritorno al tiglio in fiore, incorniciato dalle due colonne del tempietto-belvedere neoclassico-folk: rifugio di fortuna perfetto per temporali estivi. Mezzora dopo, tra le colonne, l’arcobaleno. Ma adesso, muovendomi verso il lago e guardando giù il paesaggio, l’incanto maggiore è al limitare dei campi di grano: un po’ come in certi quadri di Vallotton, avviene il risaltare netto e misterioso del verde quercia o cos’altro.