Una signora elegantissima di una certa età, entrata in scena con cappotto blu notte e foulard a pois, appena arriva il gipfeli su un piattino, all’istante, gli stacca l’estremità con le dita. Intanto, la boiserie in ciliegio del tea-room al primo piano della confiserie Schiesser a Basilea (253 m), incomincia ad accordarsi, tra i milioni di fotorecettori della mia retina un mattino d’inizio inverno, al verde larice dell’imbottitura delle panche e sedie. Dove su una di queste, in stile caffè viennese, è seduta la signora del gipfeli: taglio a caschetto lungo, capelli grigi striati di nero, naso aquilino, orecchini a forma di cuore. L’ultima estremità, a sorpresa, la inzuppa nell’espresso e poi, roba mai vista, con il cucchiaino raccoglie ogni minima briciola rimasta in giro. Un gesto inatteso che la dice lunga sulla bontà dei gipfeli (o kifer come si dice in Ticino) di Schiesser.
Forse la vera specialità insospettabile di questa pasticceria al diciannove della Marktplatz da centocinquantadue anni. La sciura del gipfeli, con i polpastrelli, continua a cercare, tastando, le briciole. Senza ordinarne un secondo come faccio ora, seduto a uno dei ventuno tavolini in marmo di questo tea-room anni Trenta, le cui tende ricamate, sono color rosa salmone. Dalle finestre si vedono passare via i tram verdi, l’albero di Natale sulla piazza dove ci sono, come sempre, le bancarelle del mercato. Diversi, tra gli avventori, sono turisti venuti a visitare l’eccentrico municipio rosso mattone in faccia. Molti gli habitué, riconoscibili dal trinomio «Basler Zeitung» – caffè-kifer.
Laila mi porta il kifer dorato, la cui piega è basilare e l’aspetto graziosamente irregolare. Azzannandolo, ecco che arriva Stephan Schiesser, pasticcere di quarta generazione, con un vassoio di foreste nere che vuole sistemare nella vetrinetta. Bis-nipote di Rudolf Schiesser (1850-1905), il fondatore glaronese venuto a Basilea da Diesbach, villaggio di duecento anime sulla sponda destra della Linth. Alla fine ci pensa Laila, la cui visione dello spazio è più acui-ta. Le cameriere di Schiesser vengono un po’ da tutto il mondo: dalle Filippine come Laila, dalla Spagna come la storica Adelina qui da una vita al pari di Chantal l’alsaziana, poi Messico, Brasile, Italia, Germania, Pakistan.
Degno di nota, l’arco ligneo degli specchi: nuvolesco come gli stucchi sul soffitto color meringa, ma soprattutto che riprende, con esattezza, il rilievo delle decorazioni scolpite sul portale della facciata in arenaria – lungo la Sattelgasse – dell’edificio opera di Heinrich Flügel (1869-1947). Architetto basilese artefice del bovindo stratificato come una torta e rallegrato in cima da tre misteriose figure di pietra: un pellicano, un molosso, un gufo. Nonché all’origine dei sorrisi strappati al passante dall’occhio attento, prima di entrare nella confiserie qui dal 1870. Sul portale, scolpiti, ci sono un bambino con un’alzatina portadolci strapiena e un cane goloso ai suoi piedi. Dall’altra parte, una bambina con una bambola a penzoloni, aspetta di ricevere un dolce. Delicata scena-preludio che raffigura le aspettative di chi entra da Schiesser dove si trova un po’ di tutto: dai läckerli ai paté in crosta, passando per praliné, frutta e verdura di marzapane, biscotti natalizi o cos’altro ancora fino ai pastéis de nata portoghesi. Però, secondo i conoscitori, oltre ai sorprendenti super gipfeli, il cavallo di battaglia – a parte simboleggiare involontariamente l’iniziale della confiserie, presente, goticizzante, in bronzo, sulla porta d’entrata – sono le Schoggi-S: le esse di cioccolato. Per dovere di cronaca ne provo una, niente male, a metà strada tra la meringa e la mousse di cioccolato.
Indaffarata e spesso al telefono, gironzola anche Rosalba, la moglie di Stephan Schiesser con la quale gestisce la pasticceria di famiglia. Orfano di Frau Kifer, m’immagino, seduto a un tavolino un pomeriggio di decenni fa, Hermann Kesten (1900-1996). Scrittore tedesco frequentatore abituale, nell’ultimo periodo della sua vita, di questa sala da tè ed esperto del tema. «Ho passato una buona parte della mia vita nei caffè e non me ne pento. Il caffè è la sala d’attesa della poesia» scrive in Dichter im Café (1959). Cedo alla tentazione di un mandarin givré. Mi tocca però aspettare che si sciolga. Allora, in attesa, leggo il giornale.