Su un tavolo di legno della brasserie Landolt di Ginevra, tra il 1907 e il 1908, Lenin incide il suo nome. Questo tavolo, attorno al quale si riuniscono parecchi russi a bere birra e parlare fino a tardi, diventa poi lo Stammtisch dei zofingiani che a loro volta lasciano il proprio nome inciso. Nel 1987 la brasserie Landolt chiude e il mobilio si disperde fino alla notizia sulla «Tribune de Genève» nel febbraio del 1992: il tavolo di Lenin si troverebbe ancora nei paraggi, nella sede dell’associazione studentesca Zofingia. Ritrovamento presunto che si ripete ormai da diversi anni, spuntando periodicamente in un trafiletto sui quotidiani regionali: dal granaio di un rigattiere di Dardagny al ricco collezionista comunista di Zurigo. In realtà, il tavolo ginevrino di Lenin, risulta tuttora introvabile. Esistono però due altri tavoli di Lenin; uno alla famosa Closerie de Lilas di Parigi, l’altro al Juttutupa di Helsinki.
Ad ogni modo, se v’interessano i tavoli illustri, in un vecchio bistrò di Vevey si trova il tavolo di Rousseau. Alle spalle della place du Marché, la più grande piazza del mercato d’Europa impiegata la maggior parte del tempo come parcheggio triste a cielo aperto, prendete rue de Lausanne. A pochi passi, all’angolo con rue du Théâtre, c’è il restaurant La Clef dove entro una fine pomeriggio di fine ottobre. Basta un colpo d’occhio per notare un tavolo diverso, ben più antico degli altri, perdipiù vicino alla finestra. Mi siedo lì e infatti ecco al centro una targhetta in bronzo dove si legge il nome in maiuscolo di Jean-Jacques Rousseau. Sotto, in corsivo, un po’ cancellato dai polpastrelli, c’è scritto: «prit ses repas sur cette table lors de son sejour à l’Auberge de la Clef en juillet 1730».
Al tavolo accanto, un signore ammazza il tempo con un cruciverba in compagnia di una birra da mezzo. Ordino «un ballon de St-Saph». «Dodici!» esclama il mio vicino di tavolo. Tiene il conto delle sue vittime, da casa si è portato due ammazzamosche di plastica. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), non ancora autore di niente, capita qui diciottenne durante un viaggio di cinque mesi a piedi. Partito da Ginevra dov’è nato, passa prima da Nyon e Losanna, poi andrà a Friburgo e Neuchâtel. La cameriera portoghese mi porta il bicchiere di bianco brinato quanto basta. Brindo da solo, in silenzio, al titolo di un libro di Irène Némirovsky riaffiorato prima di colpo: Come le mosche d’autunno (1931). E sorseggio così a occhi chiusi quel paesaggio di vigneti mozzafiato intorno al paesino di St-Saphorin a pochi chilometri da qui, condensato in questo chasselas, al tavolo di Rousseau (82 m) a Vevey. Il tavolo in quercia è lucido, segnato dal tempo in una gradevole costellazione di graffietti marrone chiaro. Passo più volte il palmo sopra questa superficie vissuta. Dove c’è la targhetta parte una grande fessura fascinosa. Chissà quanti, penso, si sono seduti qui a bere e mangiare in duecentottantasette anni.
Dall’altra parte della strada c’è un negozio di fiori. Lo sguardo poi si può spingere fino alle cime del Chablais in Alta Savoia, sulla sponda opposta del Lemano. «Stabilì le mie pupille a Vevey» scrive Rousseau nel 1770 alla fine di un paragrafo un po’ prolisso, esaltato, patetico – del libro ottavo delle Confessioni (1782) pubblicate postume – che vi risparmio, a proposito della sua ricerca di un’ambientazione per i suoi personaggi futuri. In breve, arriva qui perché colpito dal lago e attratto ancora di più da Madame de Warens che chiama ridicolmente «Maman». Trentunenne donna di mondo nata qui a Vevey e morta in miseria a Chambéry. Una coppia di mezza età entra e riserva un tavolo per le sette meno un quarto. La specialità qui sono i filetti di pesce persico alla Rousseau. Usato in tutte le salse, è il caso di dirlo, il mieloso autore morto amareggiato. «Tredici!». Il vicino cruciverbista ha colpito ancora. Gli dico che la mia prozia Ilda le prendeva felinamente al volo, stringendole nel pugno, ma non fa una piega. Precisa però che non prende solo mosche ma anche cimici marmorate asiatiche.
Appare lo chef magrolino che beve un bianco veloce poi sparisce. Un signore si siede di fronte a me. È un antiquario di Corsier-sur-Vevey che viene qui ogni giorno, tranne il giovedì, alle sei in punto. Il giovedì cena sempre con sua sorella al Buffet de la Gare di Céligny, paesino lacustre del canton Ginevra al confine con il Vaud. Alle sette e mezza, al tavolino nell’angolo. E tutto fiero mi dice: «il tavolo di Richard Burton». Attore gallese indimenticabile in coppia con l’amata Liz Taylor in Chi ha paura di Virginia Woolf ? e che riposa nel cimitero di Céligny dall’agosto 1984. Forte bevitore nominato sette volte all’Oscar senza mai vincerlo, Burton pranzava ogni giorno lì a quel tavolino discreto del Buffet de la Gare. Non fanno il filetto à la Burton e non c’è elegantemente nessuna targhetta, ma a quanto pare, notizia dell’ultimo minuto, ci sarebbero le «pommes frites allumettes migliori del mondo e una tartare da sogno». Se mi sbrigo a prendere il prossimo treno, arrivo giusto in tempo per cena.