Lo chiamano home working: una pratica lavorativa sempre più diffusa nell’attuale situazione di persistente emergenza sanitaria. Anch’io mi sono ritrovata, in questo periodo, a tenere un corso di filosofia da casa. Attraverso lo schermo del mio computer ho imparato a entrare in contatto con le persone che idealmente mi raggiungono. Ho imparato a usare la password come fosse un’inedita stretta di mano sulla soglia del luogo di incontro. Un’esperienza nuova. Curioso e anche un po’ straniante non potermi specchiare nello sguardo dell’altro ma solo nelle immagini evocative con cui accompagno il discorso, lasciando correre la parola verso persone per lo più invisibili, a parte qualche incursione momentanea offerta dalla tecnologia dentro piccoli riquadri posti sull’angolo dello schermo.
Grazie all’immaginazione sto comunque riuscendo a convivere con questa mancanza della presenza fisica dei miei interlocutori. Per tentare di mettere davvero in comune i pensieri ho sentito forte il bisogno di immaginare quelle espressioni che sempre, nell’ascolto della parola dell’altro e nella condivisione di un’atmosfera, nascono dalla postura della bocca e irradiano nell’espressione dello sguardo. Sullo sfondo della bellezza delle immagini artistiche offerte dal mio power point, ho imparato a immaginare la bellezza dei sorrisi. Perché il sorriso, al di là dei molteplici sentimenti che può esprimere, è anche il segno di una disposizione dell’animo all’apertura e all’ accoglienza.
Confrontata con questa mancanza, e con l’immaginifica evocazione della sua presenza, mi sono poi chiesta se oggi, dietro le mascherine, quando ci incontriamo in luoghi non virtuali, riusciamo ancora a sorridere a noi stessi e agli altri.
Mi sono chiesta se anche la mascherina, segno visibile, e in questo momento imprescindibile, di reciproco rispetto, non possa trasformarsi in un sorriso, autentico seppur di carta. Mi sono chiesta se in queste nuove posture del volto non sia riconoscibile, in altre forme, il linguaggio del sorriso, capace di alimentare, nonostante tutto, i legami e i sentimenti di condivisione.
Oggi siamo tutti un po’ più tristi, sospesi in un tempo sospeso che sembra non voler passare. Una tristezza indotta, spiace dirlo, anche dalla continua battente informazione su numeri che alla fine riguardano solo, o soprattutto, gli addetti ai lavori. Sappiamo di essere in un periodo difficile, ma perché ricordarcelo in modalità algoritmica anziché in forme comunicative più adatte a sollecitare le nostre responsabilità, evitando le derive dell’insofferenza o della paura?
Ma la tristezza di oggi, quando riesca a contenersi in un approccio comunque accogliente nei confronti della vita, pur con le sue durezze e le sue sofferenze, quando non si lasci abitare dalla paura, non credo sia incompatibile con il sorriso. Con un sorriso che diventa allora metafora di ogni legame, come accade anche quando lo offriamo ad una persona malata proprio nel condividere il suo dolore.
Scrive Alda Merini, la splendida poetessa che ha cantato mille tormenti della vita, «Sorridi donna / sorridi sempre alla vita / anche se lei non ti sorride. / Sorridi agli amori finiti / sorridi ai tuoi dolori. / Il tuo sorriso sarà / luce per il tuo cammino / faro per naviganti sperduti…»
Sorridere è un modo delicato e discreto di accogliere la vita, in attesa delle sue luci e delle sue ombre. Ma il sorriso a volte può, della vita, annunciare un desiderio di espansione, un invito ad andare oltre; un invito a ridere, ad aprirsi ad una risata e ad assumerne tutta la forza esistenziale, come in questi versi di Pablo Neruda: «Amor mio, nell’ora / più oscura sgrana / il tuo sorriso, e se d’improvviso / vedi che il mio sangue macchia / le pietre della strada, / ridi, perché il tuo riso / sarà per le mie mani / come una spada fresca». Qualcuno forse ricorderà l’esplosiva risata di Zorba il Greco al termine dell’omonimo film; una risata incontenibile che contagia il suo compassato amico inglese di fronte al disastro: il loro progetto sta crollando impietosamente sotto i loro occhi e loro ridono, e si mettono a danzare la bellezza della vita al ritmo del sirtaki.
Del ruolo terapeutico della risata si fece promotore Patch Adams, meglio conosciuto come il «Dottor Sorriso». Adams fondò in America, nel 1971, una clinica molto particolare e piuttosto alternativa, amorevolmente attenta alla relazione e al benessere del paziente. La sua proposta terapeutica ha avuto ampia risonanza nel mondo, e non è raro incontrare nelle corsie degli ospedali, o nelle case per anziani, accanto ai camici bianchi, i variopinti e giocosi «medici clown». Ridere, per riaffermare la vita.