Il silo di Bernoulli a Basilea

/ 02.10.2017
di Oliver Scharpf

«Hanno una potenza monumentale la cui espressione sostiene quasi il paragone con le costruzioni dell’antico Egitto» scrive Gropius nel 1913, riconoscendo per primo la maestà di certi silos nordamericani e canadesi. «Magnifiche primizie del nuovo tempo» le chiamerà poi Le Corbusier in Verso un’architettura (1923) corredando tutto il capitolo sul volume con nove foto di silos. In Svizzera, degno di attenzione, è quello di severa eleganza progettato nel 1923 da Hans Bernoulli (1876-1959): architetto e urbanista basilese discendente da una famiglia di grandi matematici, noto per le sue case a schiera popolari e per il pamphlet La città e il suo suolo (1946). In riva al Reno, nel cuore del porto di Basilea dove arrivo con il tram numero otto una domenica d’inizio ottobre. Kleinhüningen: quartiere un tempo villaggio di pescatori di salmoni dove Jung ha passato l’infanzia e l’adolescenza. Confesso che mi sento sempre molto a casa a Basilea, un po’ proprio per il Reno che va verso il mare del Nord, il suo passato alchemico, le belle case ben conservate, i basilischi, la Warteck, l’ironia dei suoi abitanti, e in fondo soprattutto forse perché i miei si sono conosciuti qui.

Un caffè al volo al Restaurant Schiff il cui bovindo fa angolo e vale la pena già per gli affreschi fluviali fuori. E poi via lungo la Wiese invasa dai gabbiani cibati da una vecchietta e che tra pochi metri, sfocerà nel Reno. Imbocco l’Hafenstrasse e subito rapisce la bellezza dei container navali e delle gru portuali. Giornata di visite alla terrazza del silo, ne fanno sei all’anno, per quella delle 11.30 ci sono solo io. Parto così con il signor Toni che si è appena fumato una marylong. È un cortese pensionato che ha lavorato una vita qui negli uffici del porto: camicia a scacchi, apparecchio acustico, riporto. Vagoni del treno sono a filo del silo pronti a farsi imboccare di frumento e orzo. Classificato come monumento, il silo di Bernoulli (248 m), è infatti al contempo ininterrottamente in funzione dal 1924. Si respira un odore cereale e una polvere giallastra è dappertutto. I mattoni in cotto, di una tonalità bronzea-cangiante tipo fabbriche inglesi o filari di case in Belgio, è la prima cosa che investe con grazia lo sguardo.

In realtà l’edificio è in beton, ma Bernoulli ha insistito per questo rivestimento. «Oggi chi pensa più all’estetica?» dice il signor Toni. Inoltre su in cima, calmano l’occhio, delle magnifiche arcate cieche. All’entrata, se levate la patina campestre dai mattoni, si notano tante iniziali graffiate, nomi, cuoricini sghembi. Sono i segni di generazioni di scolaresche della regione in gita. Qualche scalino, poi lift fino alla terrazza la cui vista abbraccia tutta Basilea spingendosi laggiù verso il profilo sognante dei Vosgi alsaziani. Mentre sulla destra il panorama si sdraia nella Germania del sud. Assaporo, sospeso, un piacere sovranazionale. Ma la mia guida ci tiene a focalizzare l’attenzione su Basilea, raccontandomi la rava e la fava di diversi edifici. Lo fa però in modo onesto e semplice, senza l’enfasi nozionista delle solite guide d’arte isterico-saputelle, perciò lo ascolto. Lo sguardo però tende a sfuggire verso i Vosgi dove in questo periodo mia mamma andava a raccogliere chanterelles con la zia Amanda che aveva un negozio di cappelli. Sotto, sul fiume, ancora container accatastati tra i quali spiccano quelli con la stella bianca su sfondo azzurro della danese Maersk. Accanto una catasta di traversine delle FFS che devono sbullonare per poi partire verso l’Olanda.

Chiedo se da qui si vede la casa di Jung. No, però m’indica il punto esatto, all’inizio della Dorfstrasse, non lontano dallo Schiff tra l’altro. Già che ci siamo saliamo su in cima, cinquantatré metri di altezza. Ai tempi, il primo grattacielo di Basilea. Scendiamo centinaia di scalini a piedi, le mura impolverate sono verde militare. Bombardato per sbaglio nel 1941 pensando fosse in Germania, il Toni vuole farmi vedere dove. Si dovrebbe vedere una diversità di colore dei mattoni, ma siamo in controluce e non trova il posto. Gli dico che non fa niente e gli stringo la mano. Rimango ancora un po’ lì imbambolato. Se arrivando la facciata sud sembra una torre, questo lato a nord svela tutta la sua sacralità. Il tetto spiovente della facciata richiama le chiese romaniche. Ma a quest’ora, così in controluce, mi ricorda anche il triangolo isoscele del Tangram che riaffiora di colpo da lontano e si staglia netto nel cielo. A volte solo il gioco e l’immaginazione alleviano la malinconia, incomincio a credere sul serio alla sincronicità junghiana.

Ora si potrebbe bere una birra in Germania e pranzare con un tartare in Francia, ma l’ultima volta sono poi finito in un postaccio a giocare ai cavalli che correvano stanchi in tele sotto la pioggia. Opto per sorseggiare una vervena al Rostiger Anker. Un ristorante-bar qui dietro l’angolo con i tavolini sulla banchina. Dalla nave mercantile attraccata di fronte si sente Hotel California (1976), un cigno fruga con il collo allungato la placida superficie olivastra del Reno.