Il silenzio delle visioni

/ 17.10.2022
di Lina Bertola

Sollecitata da una gentile lettrice riprendo volentieri il tema del rapporto tra etica e politica poiché la ritengo una questione rilevante. Spesso, nell’urgenza di affrontare problemi concreti, non ci rendiamo conto della presenza di prospettive etiche tra loro diverse: non le riconosciamo perché non ci fermiamo ad accogliere il reale significato delle visioni. Spesso l’etica rimane inespressa sullo sfondo dell’agire politico.

Quando ci capita di dover affrontare un dilemma personale, quando siamo in difficoltà di fronte a una decisione, i nostri valori, la nostra visione del mondo e della vita, sono invece ben presenti e ci rendono ben consapevoli di ciò che può rendere difficili le nostre scelte. Ad esempio, l’impegno a dire la verità, o meglio a essere veri nel nostro relazionarci agli altri, lo consideriamo senza dubbio un valore. Ma dobbiamo sempre dire la verità o dobbiamo considerare le conseguenze che ciò potrebbe comportare? È una questione che ci tocca nell’intimo e a cui ogni volta cerchiamo di rispondere secondo i dettami della nostra coscienza, consapevoli del conflitto che a volte può nascere tra principi e responsabilità etiche. Tutto ciò si compie nel dialogo intimo con noi stessi. In questi momenti sperimentiamo in prima persona la presenza dell’etica come bussola della vita.

Diversa è la situazione quando dobbiamo affrontare scelte politiche. Qui capita spesso che mettiamo in gioco valori e visioni della vita, tra loro anche incompatibili, senza rendercene conto. Nell’urgenza di trovare soluzioni concrete a problemi concreti, trascuriamo la riflessione e il dialogo sui valori che alimentano le nostre posizioni. In questo modo il dialogo diventa difficile, se non impossibile, proprio perché, per eccesso di zelo pragmatico, l’orizzonte etico sparisce sullo sfondo delle nostre parole. Succede così che utilizziamo le stesse parole per dire cose diverse.

Il fatto di non dedicare tempo alla consapevolezza, il tempo per ricondurre il nostro agire alle visioni che lo ispirano e lo nutrono, credo sia una delle cause non trascurabili della fragilità etica e del disorientamento del nostro tempo. Lo sosteneva già il filosofo Blaise Pascal: «impegnarsi a pensare meglio è il principio della morale». Nel silenzio dell’etica, nella confusione dei suoi valori, è infatti in gioco il significato stesso del nostro modo di abitare la vita, il significato stesso della nostra comune umanità.

Un esempio ci viene offerto dalla recente votazione federale a proposito degli allevamenti intensivi di animali. Senza entrare nel merito dei risultati, né delle diverse posizioni, il tema mostra bene la presenza di visioni diverse che toccano alle radici la nostra identità. La preoccupazione per il benessere degli animali si è confrontata e si è intrecciata con quella di garantire a tutte le persone le stesse possibilità di benessere alimentare. Dai molteplici argomenti, anche di dettaglio, avanzati nel dibattito possiamo tentare di risalire ai fondamenti etici. In questo caso ricondurre la politica all’etica significa dare voce a una domanda fondamentale che rimane in ombra e perlopiù silente. La domanda riguarda il significato stesso della nostra umanità e il nostro posto nella natura.

La preoccupazione di non creare svantaggi e disuguaglianze nella fruizione alimentare e nel benessere di tutti, compresi i produttori, rinvia ai valori della modernità, alla fiducia nel progresso anche economico della società, fondato sulla libertà e sulla responsabilità individuale. Il filosofo Jeremy Bentham, nel Settecento, ha definito come criterio etico-politico fondamentale la massima felicità per il maggior numero di persone. Questa attenzione all’individuo è un approdo del cammino iniziato con l’umanesimo e nutrito in seguito anche dal progetto di poter dominare la natura attraverso la conoscenza. Ci siamo progressivamente chiamati fuori dalla natura, diventata risorsa nelle nostre mani. Eppure lo stesso Bentham, così attento ai diritti umani, includeva in un certo senso anche gli animali nella sua analisi della comunità morale. Secondo Bentham non bisogna chiedersi se gli animali possano ragionare ma se possano soffrire.

Anche il filosofo Peter Singer muove oggi da motivazioni utilitaristiche per cui un’azione moralmente giusta deve massimizzare il benessere del maggior numero di esseri senzienti. Tra questi include però anche gli animali che, come noi, hanno la capacità di soffrire. Insomma, sembra necessario tornare a riflettere sul significato della nostra umanità: chiederci non solo chi siamo ma anche dove siamo, per meglio capire quale sia il nostro posto nella natura.