Il giorno in cui nacque Afrodite gli dei si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c’era il dio Poros, l’espediente, e Penìa, la povertà, venuta al banchetto per mendicare.Durante le libagioni Penìa si avvicina a Poros, un po’ ubriaco per il nettare di Zeus libato in abbondanza. Sdraiatasi al suo fianco, Penìa si congiunse al dio che la fece innamorare e così restò incinta di Eros.
È il celebre racconto della nascita di Eros che Platone affida, nel Simposio, a Diotima, figura sapienziale di donna. Un racconto che resterà archetipo indelebile della natura umana.Concepito durante la festa in onore della dea della bellezza, Eros, sempre povero, non è delicato e bello come si dice, ma è amante della bellezza. «È rude, va a piedi nudi, senza casa, dorme sulla nuda terra», dice Diotima, «perché ha la natura della ma-dre e il bisogno lo accompagna sempre. D’altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono».
Eros nasce come simbolo della condizione umana, dell’inquietudine esistenziale, del desiderio di superare quella mancanza originaria che sempre appartiene alla natura dell’uomo.La figura di Eros, Amore, è una potente rappresentazione del bisogno di trascendenza. Ma sua madre è Povertà, Mancanza.Fin dalle origini della nostra civiltà, la mancanza appare dunque come condizione costitutiva della natura umana. Una mancanza che, in giorni come questi, si fa sentire proprio in quelle interruzioni del nostro modo di stare al mondo, quando gli orizzonti in cui abbiamo imparato a riconoscere il senso della nostra esistenza diventano incerti. Qualcosa manca, qualcosa che potrebbe anche lasciar entrare, nelle nostre giornate, il volto triste della solitudine: una triste intrusione, nei nostri spazi vitali, delle ombre del sentirsi soli.
Nell’isolamento di oggi questa solitudine si lascia riconoscere in tutta la sua concretezza, in tutta la sua fisicità. Fisicità, appunto. Ci scopriamo a soffrire per l’assenza di quelle persone con cui abitavamo spazi comuni, disegnati da intrecci sempre nuovi di gesti condivisi. Una solitudine del corpo, di un corpo che si rivela così il territorio dell’anima. In queste percezioni della mancanza si esprime una potente verità del sentire, una specie di alter ego di quella subdola solitudine che a volte accompagna il nostro solitario navigare nel mondo virtuale, nelle connessioni globali e nelle esibizioni collettive di tanti amici in rete.
Isolamento reale e contatti virtuali appaiono oggi intrecciati, in modo inedito e inatteso, sui volti fragili del sentirsi soli. Il sentimento della solitudine può mostrare però anche un volto più luminoso: quello che si offre a noi nell’esperienza dello stare soli. Una solitudine non subìta, ma accolta e coltivata come presenza a noi stessi, come incontro con il nostro mondo interiore.Anche questa intima solitudine è condizione originaria dell’essere umano: nasciamo soli e moriamo soli.
In ciascuno di noi vive una solitudine del sentire che ci accompagna per tutta la vita. Una soglia invalicabile dell’esistenza, anche nell’esperienza più vera dell’incontro con l’Altro: io sento la carezza con cui ti sto accarezzando ma mai potrò sentire quello che senti tu nel riceverla. Questa solitudine originaria si offre a noi come esperienza generativa e creativa, proprio come accade ad Eros che fa della «mancanza» originaria la sorgente di un’apertura al possibile. E infatti, questa dello stare con sé stessi, dell’accogliersi, e accomodarsi, nella propria intimità, è una solitudine abitata che diventa apertura al mondo, perché solo da questa nostra intima soglia può nascere il legame con l’Altro. Di questa preziosa esperienza sono testimonianza le riflessioni di sant’Agostino che ci ricordano come l’intimo del cuore si alimenti con l’apertura all’Altro.
Saper stare soli si annuncia allora come grande opportunità, come promessa di una sempre nuova fioritura. Fioritura dei legami, ma anche fioritura del pensiero, come mostra, ed è solo un esempio, la scelta che fu di Cartesio di tornare a sé stesso per trovare una via di accesso al mondo.
Fioritura del pensiero, ma anche nutrimento della poesia e dei confini inquietanti che esplora, come accade nei versi stupendi di Alda Merini: «Se anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia, se mi trascina l’amore, tornerò, stanne pur certa; i sentimenti cedono, tu resti».Abitare la propria solitudine può davvero essere un dono per contrastare, oggi più che mai, le tristi chiusure del sentirsi soli. «Forse sarei più sola senza la mia solitudine», parola di Emily Dickinson.