Finite le Feste, che spero abbiate trascorso in letizia, trovo sul tavolo due lettere che si riferiscono, in modo diverso, alla convivenza tra familiari che contraddistingue queste ricorrenze.
La prima è di nonna Bianca che scrive: «vivo in Finlandia ma per Natale sono sempre tornata in Ticino per trascorrere Natale e Capodanno con mia figlia e i suoi due gemelli, Leonardo e Giulia, di dieci anni. Sono stati giorni molto belli, pieni di attenzioni e di affetti, ma sono rimasta turbata per la quantità di regali ricevuti dai ragazzini. In Finlandia sono molto più sobri: mai più di tre doni. Qui invece, oltre ai genitori, tutti i parenti hanno portato giocattoli tra i più costosi e complicati col risultato che alcuni sono stati presto abbandonati, altri neppure aperti.
Penso che sia sbagliato viziare così i bambini perché non si rendono neppure conto dei loro privilegi, li danno per scontati, convinti che tutto il mondo viva come loro in una bolla dorata».
Negli ultimi due anni, a causa del Covid 19, la qualità della vita di tutti ma in particolare dei bambini ha subito un duro contraccolpo. Le disposizioni sanitarie hanno limitato la loro libertà di movimento e di crescita. Proibire per lunghi periodi i contatti con i coetanei, la scuola in presenza, la possibilità di respirare a viso scoperto, di abbracciarsi e baciarsi contrastano le esigenze vitali dei bambini. Si comprende pertanto il desiderio degli adulti di risarcirli colmandoli, più del consueto, di regali copiosi e straordinari. Da una ricerca di mercato precedente al Covid, risulta che i bambini desiderano in media 4 regali, sempre in media ne ricevono 12, otto di troppo! Un eccesso che rischia di spegnere il desiderio e di annullare l’attesa, proprio gli stati d’animo che costituiscono il motore della vita psichica. L’esperienza diventa più positiva se i giocattoli costituiscono una occasione per giocare con i cuginetti ma anche con papà e mamma, dato che di solito, nella fretta indotta dalle incombenze quotidiane, resta poco tempo per condividere un obiettivo, darsi delle regole, imparare a competere lealmente e talvolta a litigare amichevolmente. È giusto e opportuno tener conto della sobrietà finlandese ma, credo, sia lecito temperarla con la festosità latina che prevede, senza esagerare, qualche eccesso.
L’altra lettera giunta in redazione è quella di nonno Arturo che lamenta le chiacchiere femminili durante i pranzi: «Le donne non tacciono mai! Mangiano e parlano senza neppure accorgersi dei sapori. E alzano la voce per farsi intendere, senza che nessuna sia disposta ad ascoltare. In certi momenti avrei voluto ritirarmi in salotto, ma l’educazione mi ha frenato. Dato che molte convitate leggono questa rubrica, potrebbe richiamarle all’ordine?».
Caro nonno Arturo «richiamarle all’ordine» mi sembra un tono un po’ militare per un’occasione di festa. Non mi permetterei mai di imporre, mi basta suggerire. Tanto più che osservo in tutta la società la difficoltà di assumere posizioni di disponibilità e di ascolto. Abbiamo perso il senso del silenzio. Inondati da voci e suoni – la Tv, il cellulare, gli auricolari, il traffico – parliamo per non essere sopraffatti. A conversare s’impara e sarebbe meglio farlo da piccoli, dopo può essere tardi.
Per concludere la secolare questione del chiacchiericcio femminile (Platone la pensava come lei), riporto una bella poesia del Premio Nobel Jose Saramago:
È la lunga interminabile
conversazione delle donne,
sembra una cosa da niente,
questo pensano gli uomini;
neanche loro immaginano
che è questa conversazione
che trattiene il mondo nella sua orbita
Se non ci fossero le donne
che parlano tra loro
gli uomini avrebbero già perso
il senso della casa e del pianeta