Il ruolo dell’errore

/ 14.09.2020
di Lina Bertola

Errare humanum est: suona così un arcinoto aforisma attribuito a sant’Agostino ma con illustri antecedenti nella letteratura latina, da Cicerone a Seneca.

Di facile memorizzazione, è un messaggio che piace sempre perché sa accarezzare la fragilità umana con sguardo benevolo nei confronti di sbagli sempre possibili. Ma è anche un messaggio che si conclude con un monito severo, a volte (forse non a caso) trascurato nelle citazioni: perseverare diabolicum. Morale della favola: l’errore ci sta, basta comprenderlo e andare oltre.

Questa antica saggezza valorizza l’errore intrinseco alla natura umana come occasione per correggersi e per migliorarsi. Su questa umana accoglienza qualche dubbio tuttavia può nascere quando in gioco ci sono responsabilità che non dovrebbero mai permetterlo.

In effetti, l’etica delle responsabilità fonda il giudizio morale non tanto sui principi ispiratori delle nostre azioni quanto piuttosto sulle loro conseguenze. In questa prospettiva l’errore si tinge necessariamente di luce negativa.

È il caso dei recenti errori commessi dalle istituzioni preposte al controllo dell’emergenza sanitaria in corso.

L’Ufficio federale della sanità pubblica ha dovuto correggersi: il maggior numero di contagi non avviene in discoteca bensì in famiglia (salvo poi lasciare aperto l’interrogativo su come ci arrivi, il virus, in famiglia). In seguito ha dovuto smentire la notizia della morte per Covid di un trentenne in buona salute. Infine, il Politecnico di Zurigo ha mostrato in uno studio che il cosiddetto contact tracing si basa su impostazioni errate che non gli consentono di funzionare come auspicato.

Questi episodi non sono passati inosservati: in un clima di incertezza come quello che stiamo vivendo ormai da diversi mesi la fiducia negli esperti diventa un’esigenza fondamentale che non andrebbe in nessun modo disattesa. Facile allora che il volto positivo dell’errore venga dimenticato e che l’errore si manifesti solo come una presenza per nulla gradita.

Tutto ciò ha profonde radici nella nostra cultura e rimane ben visibile ancora oggi, a prescindere dalle incertezze, dai sentimenti di fragilità e dalle paure che abitano le nostre vite in quest’epoca difficile. Nella nostra cosiddetta società della conoscenza, in cui il sapere esibisce una forte valenza come strumento utile e come merce di scambio, l’errore è rappresentato perlopiù in modo negativo: una mancanza o addirittura un fallimento. Qualcosa di questa atmosfera che circonda l’errore rimane attuale anche nella metafora della matita rossa degli insegnanti.

Una lunga tradizione ha pensato l’uomo come un animale razionale per il quale ogni errore è una specie di colpa da attribuire ai cattivi uffici della volontà o della sensibilità. Cartesio lo dice con chiarezza: la ragione, se guidata dal metodo, non può e non deve sbagliare.

Alcuni filosofi relativizzano questo entusiasmo nei confronti di una conoscenza certa e assoluta. Per Locke il sapere è comunque sempre limitato dall’esperienza, mentre Kant trasforma il concetto di oggettività. Una conoscenza oggettiva non ci dice come è il mondo in sé ma come lo è per noi, a partire dal modo in cui alla sensibilità e alla ragione umane è dato di conoscerlo.

È una svolta interessante che permette di prendere le distanze dall’idea di una verità assoluta e sempre certa e apre alla riabilitazione del ruolo dell’errore nell’esperienza della conoscenza.

D’altra parte, molte scoperte scientifiche sono nate da un errore, riconosciuto ed accolto per quello che voleva dirci, come ci ricorda la nota vicenda della scoperta della penicillina.

L’errore bisogna guardarlo in faccia e saperlo accogliere. È questa la lezione più interessante del filosofo della scienza Karl Popper. Solo affermazioni che in linea di principio permettono l’errore, solo teorie che possono essere falsificate dall’esperienza, hanno un fondamento scientifico. Se affermo «domani pioverà o non pioverà» dico una cosa sempre vera, una certezza che non rischia nulla, che non può essere smentita. Al contrario, dobbiamo avere il coraggio di mettere le nostre idee alla prova dell’errore, che in fin dei conti è la sola certezza.

Contro i sogni di onnipotenza di una ragione che demonizza l’errore come sua colpa, questo coraggio aiuta a considerare la conoscenza come un’esperienza sempre aperta.

Una morale della favola rivisitata che contrasta non solo i sogni di chi pensa di avere tra le mani certezze inattaccabili ma pure i rischi di una razionalità chiusa in sé stessa che teme l’errore ma che proprio per questa sua chiusura fatica a tenerlo sotto controllo.