Il rumore del silenzio

/ 03.04.2017
di Franco Zambelloni

Qualche tempo fa, in una limpida mattina di marzo, mi sono avviato per un sentiero fuori dell’abitato, per il solo gusto di vagabondare. Il sole splendeva sui rami ancora spogli, l’erba ondeggiava verde sui prati e sulla collina: tutto era bello, incantato, e però, a un tratto, tutto mi sembrava strano, come se fossi finito fuori del mondo.

Poi ho capito: tutt’intorno non c’era il minimo rumore, il silenzio era assoluto. Il silenzio mi aveva colpito; e poi, pensandoci, mi sorpresi d’essere rimasto colpito dal silenzio. Già: ci colpisce quel che è raro, insolito: e il silenzio, ormai, è diventato tale, almeno per chi vive in città. Così, quell’inaspettata assenza di suoni mi ha turbato come un rumore improvviso, che fa sobbalzare quando non te l’aspetti.

Non c’è verso, quando si gira per le strade, di avvertire il silenzio: il traffico delle automobili, il rombo delle motorette lanciate a tutto gas, l’abbaiare dei cagnolini al guinzaglio… Poi ti passa accanto un uomo, tutto solo, che parla ad alta voce; tempo fa lo si sarebbe detto un matto, oggi è semplicemente uno con il cellulare acceso che conversa con qualcun altro, magari in capo al mondo. Non c’è un bar, un ristorante, dove non ci sia una radio che spande chiacchiere, o un televisore che blatera, o un registratore che lancia musica di sottofondo – anzi, quasi mai di sottofondo, ma ben al di sopra; cosa curiosa, perché spesso si va al bar o al ristorante con amici giusto per conversare; ma è difficile farsi sentire nel rumore circostante, e così si deve alzare la voce, e quando tutti alzano la voce nessuno capisce più nulla. Anche nei supermercati è di regola la musica costante, intervallata da allettanti offerte pubblicitarie ad alto volume. Insomma, il silenzio è per lo più bandito dalle nostre vite.

Credo di capire perché nella vita d’oggi si voglia cancellare il silenzio. Certo, le esigenze commerciali impongono che gli avvisi pubblicitari risuonino ovunque e potentemente; ma la musica o i ritmi incalzanti e monotoni che accompagnano nei luoghi pubblici rispondono probabilmente a un’altra funzione: quella di illudere che non si è mai soli. È la solitudine, mi pare, che è diventata intollerabile: e se è così, è perché si è più soli che mai.

Già a metà del secolo scorso il sociologo David Riesman aveva evidenziato in un libro, La folla solitaria, la nuova solitudine del nostro tempo: non il quieto isolamento del monaco, o del viandante solitario alla Rousseau, ma la diversa solitudine della nostra epoca – quella di chi è solo in mezzo a una folla d’altri. Paradossalmente l’essere tra la gente – che apparentemente dovrebbe essere il contrario della solitudine – diventa invece l’isolamento triste di tante condizioni umane. Lo sfaldarsi della comunità, l’allentarsi dei legami interpersonali, l’anonimato che caratterizza l’affollamento nelle grandi città – questi sono i fattori che fanno patire la solitudine in mezzo alla folla: tutto è pieno di gente, i caffè, i negozi, i palazzi sovraffollati, gli stadi pieni di spettatori, le spiagge piene di bagnanti. A tutto quel pieno corrisponde un vuoto interiore; un vuoto che la fantasia e la meditazione non sanno più colmare, perché il sogno, per nascere, dev’essere avvolto nel silenzio: così i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete» dell’Infinito leopardiano ben difficilmente potrebbero essere evocati nel frastuono tumultuoso della folla. E proprio il Leopardi, nello Zibaldone, indicava la solitudine come la condizione per il recupero di se stessi, quando si è «disingannati, stanchi ed esauriti di tutti i desideri».

Così, non c’è un’unica solitudine, ma almeno due, secondo le condizioni esistenziali e le caratteristiche dell’individuo: c’è la solitudine voluta e quella subìta. Quest’ultima ferisce l’anima, specie se affonda nell’anonimato della folla dove ci si sente sperduti e privi di ogni riconoscimento individuale; o anche se ci si sente abbandonati e sciolti da vincoli affettivi. Cesare Pavese, che per questo ebbe molto a soffrire, scrisse: «Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia». Ma l’altra solitudine, quella desiderata come temporaneo ritiro dal mondo e salutare ripiegamento nell’interiorità, è quello «stare soli con se stessi» che la saggezza antica raccomandava per dialogare con il proprio io, conoscersi a fondo, esaminarsi, fantasticare e sognare: in altri termini, per crescere dentro se stessi. Così diceva Leonardo da Vinci: «E se tu sarai solo – tu sarai tutto tuo».