Non proprio un nome adatto per un fiume che ha fatto la storia, ma quando nel XV secolo il revival di interessi per il mondo Romano che fece da preludio alla riscoperta rinascimentale del mondo classico portò gli eruditi alla mappatura «sul campo» degli idronimi romani, la scelta cadde proprio sul Pisciatello, un fiume della portata di poco più di un fosso. Tanto che una lapide di epoca classica poi risultata falsa fu strategicamente piazzata e «scoperta» dagli studiosi presso un ponte sul suddetto. Epoca che vai, fake news che trovi: il fervore di far rivivere le gesta dei temporis actis era tale che un umanista del calibro di Flavio Biondo – colui per intenderci che coniò il termine «Medioevo» (Forlì 1392, Roma 1463) – si guadagnò fama imperitura come il grullo che ci aveva creduto sottoscrivendo la suddetta nella grande opera Roma Restaurata sulla toponomastica e l’archeologia romane pubblicata fra il 1444 ed il 1446. La lapide in questione era peraltro inequivocabile, in quanto recava il testo della cosiddetta sanctio. Era questo un provvedimento del Senato Repubblicano secondo il quale i promagistrati – ai quali i governatori delle province erano assimilati – potevano esercitare il proprio imperium (il diritto ovvero di comandare truppe) solamente all’interno della propria giurisdizione. Un promagistrato che avesse oltrepassato il confine italiano a capo delle sue truppe vedeva automaticamente decadere il suo diritto di imperium, sotto pena di morte. E chiunque ne avesse obbedito agli ordini incorreva nella stessa sanzione.
Queste le condizioni che Giulio Cesare si trovò a dover ben ponderare in quella fatale vigilia del 10 gennaio del 49 A.C. Governatore delle Gallie dove si era pazientemente creato un seguito leale personale – sua la famosa frase «meglio primi in provincia che secondi a Roma» riportata da Plutarco – si era presentato al guado fatale in seguito alle turbolenze che agitavano gli assetti del potere romano nella fase terminale del periodo Repubblicano. Al suo seguito era la Tredicesima Legione Gemina. Il suo simbolo del Leone era diventato leggendario durante le campagne contro i Belgi e nelle Gallie. Creazione diretta di Cesare, che l’aveva arruolata nel 57 A.C., a lui restò fedele fino alla fine. Lo storico Svetonio riporta dell’indecisione di Cesare di fronte al dilemma se attraversare o meno il Rubicone, che segnava allora il confine fra la Gallia Cisalpina e l’Italia. La decisione estrema sarebbe stata presa dopo che una visione non meglio specificata lo avrebbe persuaso sull’esito positivo di un gesto che altro non era se non alto tradimento – mica noccioline per un servitore di Roma. Pare che la sera successiva all’attraversamento Cesare abbia cenato coi fedelissimi Sallust, Hirtius, Oppius, Lucius Balbus e Sulpicius Rufus: fu allora che la famosa frase alea jacta est – il dado è tratto – sarebbe entrata nella storia. Quando la notizia del fatale passaggio giunse a Roma fu il panico. Nessuno aveva ben chiaro cosa di preciso avesse in mente Cesare (posto che lo sapesse lui stesso). Ma per buona misura i Consoli Claudius Marcellus e Cornelius Lentulus Crus seguirono l’esempio di Pompeo – il nemico dichiarato di Cesare – e scapparono da Roma presto imitati da una buona parte dei Senatori. Ne seguirono le devastanti Guerre Civili culminate con la vittoria di Cesare che misero fine non solo alla Repubblica, ma anche alle accuse di alto tradimento nei confronti del giocatore di dadi più famoso della storia.
Al momento di varcare il Rubicone del Nuovo Anno con una rubrica sul tema del «trapasso» piace al vostro Altropologo pensare che l’idea di piazzare la solenne storica lapide grondante di Storia, testimone di Grandi Eventi e monito sempiterno etc… sul Pisciatello sia stata nient’altro che uno di quegli scherzi deliberati che in Romagna – che è dopotutto la terra di Fellini – si consumano da sempre. Caduto l’Impero, dimenticati confini e res gestae e discesa l’intera Europa nelle penombre dei cosiddetti «secoli bui», l’area dell’entroterra romagnolo fra Rimini, Cesena e Forlì diventò terreno di paludi incerte e malsane, ora che i terreni non erano più drenati dalle fatiche dei coloni. Di conseguenza i fiumi che scendevano dagli Appennini si impantanavano senza più percorsi definiti e memoria propria, per così dire, ricacciati verso l’entroterra dalla bora e dalle mareggiate. Così fino a quando, in una temperie di rinnovata curiosità ed interesse storico, anche per la ripresa economica e demografica seguita agli anni bui della Morte Nera (1348) che comportò un notevole sforzo per recuperare terre e regolare i fiumi, a qualcuno venne in mente una sorta di Amarcord ante litteram: «E il Rubicone!? Dove mai sarà finito il Rubicone?!». Il resto è Storia: buon anno a tutti!