Il rogo delle vanità

/ 10.02.2020
di Cesare Poppi

Sono certo ancora nella memoria degli accorti lettori di questa Rubrica le notizie relative alla distruzione delle antichità archeologiche conservate nei musei afghani ed iracheni, dei manoscritti antichi di Timbuctu, delle statue colossali del Buddha di Bamyan e avanti di questo passo che hanno caratterizzato l’espansione di varie forme di fondamentalismo islamico nelle ultime decadi. Gli eventi hanno avuto un impatto sull’opinione pubblica internazionale tanto più profondo per il fatto che oggi noi viviamo una sorta di culto laico «del Patrimonio dell’Umanità» negli archivi del quale figurano per la maggior parte le testimonianze di forme di civilizzazione architettonica, pittorica, letteraria e «religiosa» in genere prodotte in un passato Altro e da Altri.

L’equazione fra «civiltà» e «cultura» tanto materiale quanto immateriale è consacrata in quel testo iconico della civiltà cosiddetta «Occidentale» che è Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953). Qui il Rogo dei Libri diventa simbolo e monito di una barbarie prossima ventura – i roghi del nazismo memoria recente – di contro agli atteggiamenti liberali e libertari propri delle democrazie avanzate. Ma, come sempre, non è sempre stata colpa degli Altri. Le prime leggi che miravano a contenere la diffusione di atteggiamenti culturali non in linea con una mediana portatrice delle virtù civiche risalgono già alle forme di controllo collettivo del lusso nelle città della Grecia classica e «democratica» – famose fra tutte le Leggi Suntuarie di Solone (538-558 a.C.) che vietavano l’esibizione del lusso ed altre stravaganze. Nella Roma antica la Legge Oppia fu promulgata nel 215 e rimase in vigore fino al 195 a.C. In un tempo nel quale l’economia romana soffriva per gli effetti delle guerre puniche, veniva fatto divieto alle donne di vestire lussuosamente e spendere fortune per cosmetici preziosi. Fu alla fine abolita in seguito alle proteste della stessa popolazione femminile di Roma.

Misure draconiane volte a trarre le conseguenze pratiche da quel testo-chiave che era ed è l’Ecclesiaste o Qohelet si susseguono in tutta la storia dell’Occidente, segno che – appunto – servivano a poco o a niente. Nei Comuni italiani l’imposizione di leggi suntuarie variamente formulate (ma va da sé guarda caso che siano soprattutto le donne a farne da target) punteggia regolarmente situazioni di crisi tanto di natura economica quanto di natura morale. Il più celebre episodio di rivolta contro il lusso ed il consumismo è però forse quello che culminò nel Falò delle Vanità che segnò le celebrazioni del Giovedì Grasso a Firenze il 7 febbraio 1497. Girolamo Savonarola, il frate predicatore domenicano che Lorenzo de Medici aveva portato a Firenze nel 1490 per poi vedersi proprio da quello spodestato quattro anni dopo, era ormai padrone di Firenze. Nei suoi sermoni infuocati attaccava ogni forma di lusso – libri, opere d’arte, antichità, vestiti, ingredienti di cucina… ogni oggetto che potesse essere individuato come vanitas vanitatum veniva condannato senza appello. A partire dal 1495 Savonarola inaugurò quelli che divennero famosi come Falò delle Vanità. Si tenevano il Martedì Grasso, ultimo giorno del Carnevale per onorare – ironia della sorte – la tradizione popolare che voleva il rogo come rito di espulsione del male e di purificazione dagli eccessi del Carnevale stesso. E così i seguaci di Savonarola, detti Piagnoni, scorrazzavano per la città mettendo le mani addosso ad ognichè potesse puzzare di lusso e ricchezza per ammassarlo in Piazza della Signoria fra lazzi, risate e schiamazzi di ogni sorta.

Così descrive la scena il Vasari, autore del celebre Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550): «il carnovale seguente, che era costume della de’ più città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa et altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amorosi… si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo, ma particolare della pittura, dove Baccio portò tutto lo studio de’ disegni che egli aveva fatto degli ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri, che avevon nome di piagnoni». Il Baccio di Vasari altri non era che Botticelli. Fulminato dagli strali del Savonarola aveva abbandonato la pittura per un certo periodo ritenendola fonte di peccato e dannazione. Sappiamo che portò personalmente al rogo una serie di bozzetti di carattere mitologico ed altri dipinti. Finì in miseria.

Almeno, così pare, fino al maggio dell’anno successivo. Passata à nuttata – così si dice a Napoli, scomunicato da Alessandro VI, Savonarola salì il patibolo il 13 maggio 1497 nella stessa Piazza della Signoria dove aveva tenuto i Falò delle Vanità. Fu prima impiccato per essere poi bruciato al rogo. Le ceneri cosparse in Arno per impedire che diventassero reliquie. Sic transit.