Il responsabile della felicità

/ 02.09.2019
di Natascha Fioretti

Eh sì, cari lettori, torniamo a parlare di felicità. Dei tanti ambiti che il saggio Happycracy. Come la scienza della felicità controlli le nostre vite (vedi «Azione» del 12 agosto 2019) tocca, quello che più mi è piaciuto, forse perché lo sento più vicino, è quello lavorativo. Come impatta la teoria della positività sul lavoro? Per capirlo vi parlo di Ryan, esperto di riduzione del personale che lavora per una società specializzata nella liquidazione dei dipendenti di altre imprese. Cinico e affascinante, non solo comunica con grande stile il licenziamento ai diretti interessati ma gli indora la pillola a tal punto da fargli credere che in fondo non è successo niente. Bob, il licenziato, deve essere felice della nuova opportunità che gli è stata data perché ora tutto è nelle sue mani. E non deve prendersela con l’azienda perché non ha nessuna responsabilità, la decisione di ridurre l’organico è caduta dal cielo. E, se la teoria della positività ti dice di non fare il muso lungo se vieni licenziato, ti dice anche che sul posto di lavoro devi essere felice o rischi di essere un cattivo dipendente. Se ti candidi, idem. C’è chi come Tony Hsieh, uno dei tanti guru della felicità ma soprattutto imprenditore e venture capitalist, CEO della società di calzature e abbigliamento online Zappos con un patrimonio netto valutato intorno agli 840 milioni di dollari, consiglia agli imprenditori di assumere solo persone allegre e licenziare quelle che manifestano scarso entusiasmo o sono scettici verso la cultura della positività e la sua diffusione in azienda. 

Se vi alletta il quadro, Illouz e Cabanas vi mettono in guardia dal fatto che questo approccio si concentra unicamente sull’individuo, ignora le condizioni strutturali del mondo del lavoro e non mette in discussione gli obiettivi o i valori delle imprese. Anzi, qui casca l’asino, i dipendenti che mostrano un atteggiamento critico, sono accusati di negativismo e ostruzionismo. Vi ricordate il criceto che pedala sulla ruota? Diventeremo tanti identici e domestici criceti cicciottelli con le guanciotte paffute piene di cibo. Chiusi nella nostra bella gabbia dorata della felicità.

E tanto conta la felicità che in alcune aziende come Zappos, Google, Lego e IKEA è nata una nuova figura aziendale: il Chief Happiness Officer, per gli amici CHO, impegnato ad elaborare strategie che convincano i dipendenti a essere felici, in altre parole a essere più motivati, soddisfatti e entusiasti di ciò che fanno. Insomma, ci dicono Illouz e Cabanas, la cultura d’impresa negli ultimi 30 anni è cambiata. In particolare i big come Google & Co. promuovono oggi un ambiente semi-democratico che spinge il lavoratore a forgiare un legame morale e affettivo con l’azienda e con i colleghi. Oggi non valgono più le promesse di contratti a tempo indeterminato o di avanzamento di carriera. Via anche il controllo top-down, il dipendente viene trasformato in un’unità attiva che interiorizza, rappresenta e riproduce la cultura d’impresa, ossia principi, valori e obiettivi dell’organizzazione per cui lavora. 

Google, ci dicono i due autori, è un perfetto esempio di cultura aziendale positiva e, personalmente, alcune cose le trovo fantastiche (insomma qualcosa di positivo in tutta questa teoria felice dovrà pur esserci). Ad esempio nella multinazionale di Menlo Park i dipendenti si presentano in ufficio all’orario che vogliono, possono portarsi il cane, lavorare in pigiama, fare fitness e scegliere cosa mangiare tra tanti tipi di cucina diversi. 

Per dirlo con i termini della psicologia positiva il luogo di lavoro deve essere inteso come un ambiente privilegiato nel quale i singoli dipendenti possono fiorire. Il problema è che essere felici sul posto di lavoro non è una conditio sine qua non che permette «all’individuo di applicare le sue capacità e i suoi talenti più autentici, raggiungere prestazioni elevatissime sul lavoro e grandi risultati nella vita privata».

Tutto bello e possibile se lavori a Google o a Facebook ma se consegni pizze, lavori in un Fast Food o in un’impresa di pulizie la vedo più difficile. Non siamo tutti uguali, non abbiamo avuto tutti le stesse opportunità. Il confronto, il disaccordo, la rabbia per un’ingiustizia subìta sono cose di questo mondo. Abbiamo il diritto di essere infelici, lo sanno anche i criceti. E un criceto infelice non sale sulla ruota tutte le mattine. Rosicchia le sbarre e studia il modo per uscire dalla gabbia.