Il re censore e il cattivo Lambrusco

/ 04.11.2019
di Paolo Di Stefano

Tra i grandi critici della società, ci sono i poeti che si fanno commentatori della realtà anche al di fuori delle poesie, scrivendo e intervenendo sui giornali spesso in modo più coraggioso e lungimirante degli editorialisti e politologi e sociologi di professione. Limitandosi all’Italia, basta pensare a Pier Paolo Pasolini o a Franco Fortini. C’è anche Giovanni Raboni, morto quindici anni fa: milanese, autore di raccolte poetiche memorabili, in cui peraltro non risparmiava violente staffilate alla politica corrente. La Canzone del danno e della beffa, pubblicata postuma sul «Corriere della Sera», è forse l’ultima poesia che scrisse, rivolta all’«imprenditore del nulla», al «venditore di aria fritta, / forte coi miserabili / delle sue inindagabili ricchezze», quello che «sorride a tutto schermo / negando ogni evidenza, promettendo / il già invano promesso e l’impossibile, / spacciando per paterno / il suo osceno frasario da piazzista» (6? 6 senza dubbio). Ora esce una raccolta di scritti critici, apparsi su vari giornali a partire dagli anni 60. Titolo: Meglio star zitti?, a cura di Luca Daino (Mondadori).

 

Si tratta di stroncature di ambito letterario, teatrale, cinematografico su cui non sempre si può concordare (quella contro il «qualunquismo» di Sciascia, per esempio) ma ciò che più conta è che Raboni, chiamato ironicamente il Re Censore, nel presentarsi come critico letterario si pone l’obiettivo, sempre, di fare critica della cultura. A Raboni questo mondo (culturale in primis) non piaceva affatto, non sopportava «i libri sfrontatamente consumistici, i libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false». Raboni insisteva sulla necessità di definire i valori, a costo di apparire pedante e noioso. «Un falso libro – un libro falso – è una specie assai più pericolosa e nociva del genere “brutto libro” (…) Costruito per sembrare ciò che non è, per fingere qualità e virtù che non possiede». Il consumo culturale indiscriminato di «falsa moneta» mette a rischio, secondo Raboni, la stessa democrazia. Quando parlava della «grande ondata di banalità, di volgarità e di stupidità che sta sommergendo il nostro Paese» era il 1996, non c’era ancora l’invadenza dei social network ma era nell’aria.

 

Tant’è vero che a quel tempo Raboni scriveva ciò che a maggior ragione si può scrivere oggi: la regola aurea della democrazia, ogni testa un voto («in base al quale, come è noto, il voto di un analfabeta vale esattamente quanto quello di un premio Nobel»), si è trasferita nel campo dei diritti civili e della cultura. Per cui i mass media (e la politica!) hanno ripudiato «il vecchio pregiudizio secondo il quale alle opinioni dei cosiddetti “esperti” dovrebbe essere dato più spazio e attribuita maggiore importanza che a quella di un qualsiasi altro cittadino», facendo «piazza pulita dell’odioso principio d’autorità e del ridicolo mito della competenza». Mica male, come visione (6? 6). Eravamo, ripeto, nel 1996, sono passati più di vent’anni da allora e già Raboni avvertiva il male diffuso del nostro presente: quel malinteso principio di egualitarismo che si spinge «al di là, molto al di là dei confini della democrazia nell’accezione storica del termine». Si era compiuta allora quella che Raboni con evidente sarcasmo chiamava la «rivoluzione culturale italiana». Si è compiuta oggi quella che possiamo battezzare come rivoluzione culturale globale.

Ciò detto, è chiaro, si possono esprimere pareri pro e contro lo stesso Raboni a proposito dei suoi giudizi. Che però avevano il pregio di non essere mai improvvisati o «ideologici». Per esempio, quello su Giovannino Guareschi, preso a bandiera dai critici di destra come scrittore pregiudizialmente (e per presunti motivi, appunto, ideologici) discriminato dai «comunisti». Scrive Raboni confessando di averlo sempre detestato sin da ragazzo: «a rendermelo irrimediabilmente estraneo non erano le sue idee, ma il suo modo di esprimerle; non il suo anticomunismo, ma il suo stile. Detestavo, e continuo a detestare, la sua rozzezza, il suo semplicismo, il suo umorismo goliardico, la sua scrittura impastata di salame cotto e di cattivo Lambrusco, il suo manovrare storie e personaggi con la brutalità di un burattinaio avvinazzato, il suo ridurre l’immaginazione a una sottospecie della propaganda e la realtà drammatica di una nazione e di un’epoca a una rissa fra macchiette, a una farsa paesana».

 

Viceversa, un critico sempre inequivocabilmente schierato a sinistra come Raboni ama alla follia la «tragica grandezza» di uno scrittore sempre inequivocabilmente ritenuto di destra estrema come Louis-Ferdinand Céline. In letteratura, si sa, lo schieramento politico non conta nulla e l’impegno civile non basta. Tantomeno basta dissentire dalle opinioni di uno scrittore per ritenerlo una nullità. Per questo l’unica critica possibile è quella capace di dire dei libri (degli spettacoli, dei concerti, dei film) che contano, «in modo pacato, disteso e motivato, tutto il male – ma anche, quando è il caso, tutto il bene – che è giusto e utile dirne». Questo è il suo compito civile, questo è il suo dovere verso i lettori.