L’Italia, l’Europa, sembrano un cibo decongelato, appena estratto dal freezer, ancora inerte, che poco per volta però si scioglie e torna a essere commestibile. La vita sta ricominciando lentamente, forse troppo lentamente. Le città, le vite si stanno rianimando. Le strade sono piene, ma i locali e i negozi sono ancora vuoti. Ci si rimette in moto con cautela, pieni di voglia ma nello stesso tempo esitanti.
La pandemia ha accelerato e reso più evidenti cose che stavano già accadendo. Lo smart-working, cioè il lavoro a distanza. L’abitudine di ordinare il cibo a casa. L’importanza del digitale nelle operazioni burocratiche e nei consumi culturali. Il commercio elettronico che sostituisce quello tradizionale. Sono fenomeni che avrebbero fatto il loro corso comunque: non si ferma il vento con le mani. Qualcuno avrà anche implicazioni positive. Ma un colloquio via Skype non sarà mai come un colloquio di persona; così come una gomitata non sostituisce una stretta di mano. Se lavorassimo tutti e sempre da casa, non solo crollerebbero l’edilizia e il mercato immobiliare; rischieremmo tutti di impazzire. E la graduale cancellazione del commercio al minuto non solo apre voragini nei bilanci familiari e comunali, ma rende più povera la nostra vita sociale.
Purtroppo tra le tendenze e le (cattive) abitudini che escono rafforzate dall’emergenza c’è quella per cui nessuno paga più nessuno. Lo Stato italiano paga malvolentieri i fornitori, le grande aziende pagano malvolentieri le piccole, e gli inquilini pagano malvolentieri l’affitto.
L’Italia, l’Europa, fanno i primi bilanci, e si rendono conto che – con rare eccezioni, come la Germania – il prezzo pagato alla pandemia è altissimo, sia dal punto di vista economico, sia da quello delle vite umane. Molte vittime appartengono alle categorie schierate in prima linea. Medici e infermieri, ovviamente. Ma anche volontari del 118, portantini, sacerdoti, forze dell’ordine, vigili del fuoco. E poi la seconda linea, quelli che non hanno mai smesso di lavorare: farmacisti, cronisti, rider, ferrovieri, tranvieri, cassieri dei supermercati, contadini, operai delle aziende alimentari. Quelli per cui il lockdown non è stato un modo per riposare e ritrovare i legami familiari, ma ha significato levatacce, notti senza sonno, turni di lavoro in città deserte. Quelli che non uscivano sul balcone ad applaudire alle sei di sera, e molto spesso non riuscivano neppure ad ascoltare gli applausi di cui erano destinatari. Altre sono state vittime del caso, o di un errore altrui: persone che si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’epidemia ha colpito in modo diseguale. In alcune vallate del Nord Italia – tra le più ricche e laboriose d’Europa – non c’è famiglia in cui non si pianga qualcuno. Le grandi città del Settentrione sono state segnate, anche nel morale: a fatica saranno dimenticate le notti deserte e zitte, percorse solo dalla sirena delle ambulanze. Del resto, in tutta Europa sono state colpite le metropoli, le aree più avanzate: Londra, Madrid, la Catalogna, i Paesi baschi, la regione di Parigi, la Baviera, la Ruhr. A Roma e al Sud hanno prevalso all’inizio la paura, poi la frustrazione per la clausura forzata.
Nel momento più drammatico del dopoguerra, l’Italia ha dato una prova in linea con la sua storia. Ci sono stati casi straordinari di abnegazione, coraggio, generosità. Non soltanto storie individuali, ma vicende collettive di resistenza e di successo: si pensi al Sacco di Milano, allo Spallanzani di Roma, al Cotugno di Napoli, e in genere allo sforzo profuso dal personale sanitario. Nel complesso, gli italiani hanno capito, e tranne le solite eccezioni si sono comportati con rigore e dignità, accettando i sacrifici senza lamentarsi troppo.
Come da tradizione, sono mancate le classi dirigenti. Negarlo sarebbe ipocrita e non aiuterebbe a fare meglio in futuro. Qualche luce: la decisione di chiudere per tempo, evitando che il contagio arrivasse in modo massiccio al Centro-Sud; la campagna di tamponi a tappeto della Regione Veneto. Per il resto, l’Italia ha pagato un prezzo molto alto all’impreparazione e alla disorganizzazione. Non c’erano abbastanza mascherine, e a lungo si è raccontato che non servivano. Molti ospedali e troppe residenze per anziani sono diventati focolai. Non si sono fatti abbastanza tamponi. Non è stata fatta la zona rossa in Val Seriana. E ora il Paese è ripartito alla cieca, senza un piano serio di test e tracciamenti, senza neppure che siano arrivati a tutti i soldi della cassa integrazione, con il miraggio di aiuti europei che rischiano di arrivare troppo tardi. Servirebbe un altro governo, una nuova stagione. L’Unione europea finalmente si sta muovendo. Ma non finanzierà sussidi, bensì progetti. Temo che il governo italiano non sia all’altezza della situazione.
Il prezzo della pandemia
/ 22.06.2020
di Aldo Cazzullo
di Aldo Cazzullo