Il presidente errante

/ 29.01.2018
di Peter Schiesser

Constatando che l’economia mondiale non si è contratta di fronte alle minacce di un ritorno al protezionismo, che non è scoppiata alcuna nuova guerra, che a tante parole spesso contraddittorie non sono seguiti i fatti, vien da chiedersi, dopo il primo anno di Trump alla presidenza, se i timori della vigilia non fossero esagerati. In fondo, la divisione dei poteri e quei checks and balances di cui gli statunitensi vanno fieri sembrano aver arginato la demagogia di un presidente pur recalcitrante a riconoscere i limiti del suo potere. E poi, la sua politica economica comincia a portare frutti: la riforma fiscale che riduce dal 35 al 21 per cento l’aliquota sui guadagni delle aziende, unita ad una tassa scontata sui capitali che rientrano dall’estero, sta spingendo diverse grandi società (fra cui Apple, vedi notizia a pagina 20) a riportare in patria i guadagni parcheggiati all’estero e a investire di nuovo negli Stati Uniti, creando nuovi posti di lavoro.

Ma rallegrarsi di aver evitato la catastrofe è una cosa, considerare normale per gli Stati Uniti un presidente come Trump è tutt’altro. Dal capo della nazione guida dell’Occidente e garante fino a ieri di un ordine e una stabilità mondiale, costruita più attraverso un soft power che con forza delle armi, ci si deve aspettare ben altro. Prima di tutto, uno staff presidenziale che funzioni in modo strutturato, una compagine governativa e amministrativa all’altezza dei compiti. Invece la «squadra del presidente» si muove in modo caotico (il capo di gabinetto John F. Kelly tenta di porvi rimedio) e in diversi ministeri molte posizioni sono ancora vacanti, in particolare al Dipartimento di Stato (gli esteri), ciò che impedisce alla diplomazia statunitense e alle numerose agenzie statali di operare all’altezza dei loro compiti. Non sono dettagli insignificanti, in un contesto mondiale in cui antagonisti come Cina e Russia moltiplicano i loro sforzi per recuperare un’influenza mondiale. Se poi vi aggiungiamo l’imprevedibilità della politica estera trumpiana (lo abbiamo visto nei confronti della Corea del Nord, del Qatar, dell’Iran), unita ad uno spirito senza dubbio più belligerante, c’è da essere tuttora preoccupati per l’immagine degli Stati Uniti nel mondo e ancor di più per la residua stabilità di un ordine mondiale in via di ridefinizione.

Ma è lo stesso ufficio di presidente degli Stati Uniti a venire sminuito da un Donald Trump: il miliardario non incarna la dignità della carica, non ne rispetta le forme e i toni, non persegue la missione di unire il paese, anzi lo divide maggiormente. E nessun presidente prima di lui ha avuto un entourage sospettato di collusione con la Russia nel tentativo di influenzare l’esito delle elezioni presidenziali.

Tuttavia, se Donald Trump oggi è presidente, ciò è sì dovuto alle particolarità del sistema elettorale statunitense (Hillary Clinton ha avuto 3 milioni di voti popolari in più), ma anche e soprattutto al fatto che egli catalizza la crisi profonda che attanaglia quel ceto medio americano, bianco, che fino a ieri incarnava il sogno americano. La rabbia di Trump, la rozzezza, l’odio, l’arroganza che esprime sono un balsamo psicologico per quella fetta d’America sofferente, frustrata, in declino. Parallelamente, il presidente sta nominando numerosi giudici federali e ha ridato ai repubblicani la maggioranza nella Corte Suprema, cementando per i prossimi decenni i valori conservatori.

I Democratici, guardano con fiducia alle elezioni di mid-term di novembre, sulla scia di alcune elezioni sorprendentemente vinte in Alabama, Virginia e Wisconsin: se recuperassero la maggioranza alla Camera azzopperebbero Trump. Ma con ciò non avrebbero ancora raddrizzato gli Stati Uniti. E poi Trump è un tipo coriaceo.