Il potere, nelle sue molteplici forme, è sempre stato una componente necessaria di ogni società organizzata. Ma ogni potere deve avere un suo fondamento: certamente la forza di chi detiene il comando può essere un buon deterrente per chi volesse disobbedire, ma la forza, evidentemente, non basta per indurre volontariamente all’obbedienza. Il potere vero, il più forte, si realizza quando i sudditi sono portati spontaneamente a obbedire al comando. Ed ecco perché, a partire dagli antichi imperi – sumerico, babilonese, egiziano – la figura del re si riveste di un carattere sacro, assume il volto della divinità: in Egitto il faraone è figlio di una donna e del Dio Sole (Amon-Ra) ed è Dio egli stesso, e dunque la sua parola è legge divina. Il cristianesimo raccoglie questa tradizione: nella Lettera ai Romani di San Paolo si legge: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna».
Con l’Illuminismo e con la Rivoluzione francese le cose cominciano a cambiare. Ma anche Napoleone si ricollega alla tradizione: è vero che, quando nel duomo di Milano celebrò la sua incoronazione a re d’Italia, nel 1805, si pose lui stesso la corona sul capo anziché farsi incoronare dal sacerdote; e tuttavia, mentre s’incoronava, pronunciò la celebre frase: «Dio me l’ha data e guai a chi la tocca!». Insomma, è pur sempre col volere divino che Napoleone legalizzava e garantiva il suo potere. Come non pensare al fatto che Marx ebbe a definire la politica come «la forma profana della religione»?
Con l’avvento della democrazia, il potere è trasferito da Dio al popolo – ma la Costituzione elvetica, ad esempio, esordisce con la formula: «In nome di Dio onnipotente». Comunque, il sovrano è il popolo, suo è il potere. E qui si celano e si svelano nuovi volti. Dietro i volti innumerevoli della folla dei cittadini-sovrani traspare a tratti l’immagine di un potere superiore: non di un Dio, ma della macchina per creare consensi, l’arte di persuadere e, a volte, di lusingare e illudere. Dal momento che il potere è del popolo, chi vuole comandare deve necessariamente convincere l’elettorato a seguirlo; e i mezzi per conseguire lo scopo, oggi, sono sostanzialmente gli stessi del messaggio pubblicitario. La pubblicità guida i percorsi dei consumatori da una vetrina all’altra e tra gli scaffali dei supermercati; analogamente, chi vuole guidare l’elettorato al voto deve usare una comunicazione efficace, una persuasione pubblicitaria. Non è un caso che, soprattutto negli Stati Uniti, l’aspirante a una leadership politica organizzi la sua campagna elettorale sulla base dei sondaggi d’opinione: preso atto dei desideri e delle aspettative dell’elettorato, delinea poi un programma di governo conforme alle aspettative della maggioranza. E i manifesti, i talk-show, il sostegno dei media forniscono l’apparato pubblicitario occorrente. Noam Chomsky osservava, negli anni Novanta, che in una società libera e democratica l’uso del randello per obbligare al consenso non è più possibile: «È quindi necessario ricorrere alle tecniche della propaganda. La logica è chiara: la propaganda è per la democrazia quello che è il randello per uno stato totalitario».
Ma dietro la pubblicità propagandistica affiora un altro volto del potere: quello del denaro – perché, com’è ovvio, la pubblicità costa. È parere sempre più condiviso che spesso, ormai, le istituzioni formali dell’apparato democratico siano guidate da interessi economici enormi, che travalicano i confini di una nazione e ne riducono l’autonomia decisionale. Nietzsche, con la consueta lucidità, annunciava già nel 1881 il rinnovato connubio tra potere e denaro: «Quel che si faceva un tempo “per amor di Dio”, lo si fa oggi per amor del denaro, cioè per amore di ciò che oggi dà un sentimento di potenza».
Insomma, pur cambiando il volto e i fondamenti sui quali si regge, il potere dirige inevitabilmente ogni organizzazione sociale. Anche in democrazia: in fondo, come diceva Alcibiade nei Memorabili di Senofonte, la legge imposta dalla maggioranza è prepotenza di una parte su un’altra parte della popolazione. Come dice il sociologo statunitense Richard Sennet, «il dominio è una malattia necessaria di cui soffre l’organismo sociale. Non c’è modo di guarirla; possiamo soltanto combatterla».