La prima volta che ho sentito parlare di parco Robinson è stato in Sardegna. Secoli fa, in un villaggio vacanze a Santa Margherita di Pula: per andare a colazione si passava via dal parco Robinson. Non ci ho mai messo piede. Era l’epoca e l’età delle sale giochi. Assieme a mio fratello si giocava in modo ossessivo a Space Invaders (1978) o Commando (1985). Del resto non sono mai stato molto parchi giochi, in Capriasca si andava nei boschi a costruire capanne sugli alberi. In fondo un po’ il concetto alla base del primo parco Robinson del mondo ideato, su ispirazione scandinava, nel quartiere zurighese di Wipkingen nell’estate 1954: traslare la grande libertà e la piccola avventura di un luogo selvaggio in città. Dare una possibilità robinsoniana ai cittadini in erba.
Gli artefici sono due Alfred: Alfred Trachsel (1920-1995), un architetto specializzato in parchi giochi, e il giurista Alfred Ledermann (1919-2016) della fondazione Pro Juventute. Il posto prescelto, un prato ai bordi della Limmat. Tra la Breitensteinstrasse e l’Ampèrestrasse. È lì che mi dirigo salendo sul tredici. Curiosa l’assonanza tra questo luogo precursore e il primo vitaparcours scovato sempre a Zurigo, qualche anno fa. Una dozzina di minuti e scendo in Wipkingerplatz. E così, una mattina grigia di giugno, vado in cerca di un parco giochi battezzato con il nome del famoso personaggio spiaggiato su un isoletta cilena. Il naufrago per eccellenza, protagonista del libro di Daniel Defoe: La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe (1719). In faccia, sull’altra sponda della Limmat, svetta presuntuosa l’inutile Prime tower.
Beccato subito. In un angolo, nei recinti, ci sono delle capre, un maiale strano; quasi un cinghiale. Deve essere un minizoo per bambini. Due bambini sono aggrappati a una ragnatela bianca di corde intrecciate, tra due specie di capanne tipo palafitte. Non c’è molto altro. Mi cadono un po’ le braccia. Prende la scena l’edificio rettangolare risalente all’ampliamento del 1957 pianificato dall’architetto Hans Troesch. Rosso, di legno, stile Lofoten. Entro nella buvette per racimolare qualche notizia di prima mano e sapere se magari c’è ancora un angolo originario. Avevo visto alcune foto in biancoenero dove i bambini gestivano un piccolo negozio costruito da loro. Innaffiavano degli orticelli, ma soprattutto una immortalava un vecchio aereo da caccia fuori uso. I bambini arrampicati a bordo erano felici. Due donne e un uomo sono dietro al bancone, la buvette è vuota e triste. Non sanno minimamente di cosa sto parlando. Il tipo sembra quasi indispettito. Dice che non parla tedesco, solo schwitzerdütsch. Insisto a dirgli che è comunque importante sta storia del primo parco Robinson del mondo, ma non gliene frega niente. Lasciamo perdere. Il caffè brodaglia inoltre è da voltastomaco, esco a prendere un po’ d’aria. Tanto nella buvette del parco Robinson di Wipkingen (404 m), conosciuto anche colloquialmente come Robi, non ricavo grandi impressioni personali per il mio reportage.
Ho quasi paura, questa volta, con questo pezzo, di fare un buco nell’acqua. Mi consolano i due bambini che giocano ancora tra una capanna e l’altra. Due mamme con i passeggini chiacchierano vicino alle fontane tonde in beton P 175. Sono quattro, diversa altezza, comunicano tra loro tramite un canaletto. Non sono poi male, sempre opera di Troesch mi sa. Un po’ a metà strada tra le grandi foglie di Victoria amazonica e le fontane di Donald Judd a Winterthur. «Il gioco è altrettanto necessario del cibo, dell’abitazione e del vestire per il sano sviluppo della gioventù. In ogni quartiere residenziale dovrebbero esserci a disposizione sufficienti possibilità per i giochi più comuni: esse hanno la stessa importanza delle strade, dei parchi, delle autorimesse, degli impianti sportivi, e delle piscine» ha scritto Alfred Trachsel nell’introduzione allo splendido libro Campi di giochi e centri comunitari (1959). Vaglielo a spiegare a quel menefreghista frustrato ignorante e scortese della buvette.
Perlustro ancora un po’ ma è rimasto ben poco del parco giochi ideato da Trachsel e Ledermann per l’avventura cittadina. Le capanne fai da te saranno state smantellate e finite in qualche camino o usate per altro altrove. Ma chissà dov’è finito il caccia da gioco? In fondo però, come diceva Robinson Crusoe «tutte le sventure vanno giudicate insieme con il poco bene che recano in sé». Mi siedo in riva alla Limmat e penso allora a quel parco Robinson sardo snobbato per la sala giochi. Sorrido pensando a quei pomeriggi passati davanti a quei videogiochi estinti. C’erano due altri fissati che giocavano con me e mio fratello. Per battere tutti i record di Commando giocavamo in due. Uno aveva il compito di smanettare muovendo il soldato Super Joe, l’altro schiacciava come un matto il tasto per sparare. L’unica tregua, un breve tuffo in mare. Ora faccio un salto al Letten e mi butto nella Limmat, fare un pezzo d’acqua, male non fa. Anch’io come Robinson sull’isola deserta oggi devo costruirmi, con niente, il mio mondo.