La sera del quattro settembre 1618, all’ora di cena, viene giù una frana che seppellisce tutto il paese di Piuro. Tranne un palazzo, in disparte, nella frazione Prosto, in località Cortinaccio che raggiungo una mattina ai primi di settembre. Il silenzio è rotto solo dall’abbaiare di cani, tra gli orti c’è un’ape cross ricolma di fascine. Lassù, sulla sponda opposta del Mera, verdeggia il Monte Corno decapitato. Il profumo del clerodendro, davanti al cinquecentesco Palazzo Vertemate Franchi (430 m), all’epoca chiamato Cascina per distinguerlo dalle altre più fastose dimore in paese tra le quali un palazzo con pavimenti d’oro, è degno di nota. Nell’atrio-corridoio con volta a botte affrescata, si è subito accolti da una ventata di mitologia a grandezza naturale. Quattro divinità barbute sono dipinte alle pareti: Ercole qui a sinistra, di tre quarti con la clava, affiancato da Nettuno con tridente e pesce-mostro ai suoi piedi. Sulle mura di destra un Saturno annoiato appoggiato alla falce; gli tiene compagnia Vulcano che maneggia un martello. La loro ombra, sul muro, li avvicina al visitatore. Forse per questo il loro sguardo è stato graffiato dai contadini entrati a rubare dopo l’estinzione, nel 1879, dei Vertemate. Vulcano, secondo la giovane guida con unghie smaltate rosa phlox, è l’unico a cui è stato risparmiato lo sfregio degli occhi perché con gli arnesi da fabbro era più simile a loro. In compenso gli è stata cancellata la bocca per non dire niente e così, zittito, ci guarda. Altri graffi in forma di firme e scritte color sinopia vivacizzano questo quartetto-preludio degli Dei.
Entrando nel salone di Giove e Mercurio, la sobrietà esteriore del palazzo desiderato dai fratelli Luigi e Guglielmo Vertemate Franchi – la cui ultima residente vacanziera è stata la signora Maria Eva Sala che l’ha lasciato in eredità al comune di Chiavenna con obbligo di farne un museo – viene spazzata via dal soffitto a volta a padiglione lunettato tutto ricoperto di affreschi ovidiani. In una lunetta, tra le scene tratte dalle Metamorfosi (2-8 d. C.) di Ovidio, ad esempio, Io, mutata in vacca, è affidata ad Argo. In un’altra Mercurio decapita Argo. Vicino alle finestre che danno sul giardino all’italiana con classico parterre suddiviso dal bosso tosato a regola d’arte, c’è un antico tavolo da gioco, tipo carambola, utilizzato per una ridicola ricostruzione storica in una puntata di Superquark da due donne in costume da sagra del cinghiale. Di sasso, sempre al pianterreno, si rimane appena entrati nella sala di Giunone. Una stüa unica nel suo genere: il soffitto non è di legno come le pareti. Al centro c’è Giunone trainata dai cigni mentre qua e là ancora scenette ovidiane a go go come Callisto trasformata in Orsa. Intarsi vari si ammirano sulle pareti di legno: non solo cembro ma pure rovere, radica di noce, alberi da frutta. In un angolo balza agli occhi il bel verde dello smalto di piombo delle piastrelle a rilievo della stufa.
Proseguendo nell’esplorazione del palazzo dei piaceri su nei piani superiori, scopriamo nella sala delle Cariatidi, dipinta nel breve spazio lasciato dalla porta, l’unica cariatide al mondo che gode del privilegio di stare seduta. La gloria maggiore, si sa, è il soffitto in cembro minuziosamente intagliato della sala dello Zodiaco che «a occhio può valere più di una casa» scrive Silvia Andrea in La Bregaglia (1901), Escursioni nel paesaggio e nella sua storia. Era già impacchettato pronto per partire, quando arriva l’antiquario Napoleone Brianzi che compra il palazzo nel 1902 e lo fa rimontare. Un calco del soffitto, eseguito per l’Esposizione nazionale di Roma del 1911, ha lasciato dei segni. Al centro c’è la figura alata della Fama in topless con tromba. Alle pareti, oltre alle personificazioni dei mesi e i relativi segni zodiacali, ancora metamorfosi con Tantalo che fa a pezzi il cadavere del figlio. Non scherzano neanche gli intarsi del soffitto della camera accanto, la stanza del Vescovo – il cui nome ha forse ispirato il titolo di un romanzo di Piero Chiara – dove al centro di un ottagono, da una botola esadecagonale in cui è cesellata una sfera armillare, si racconta, veniva calata una ragazza per il vescovo. Qui Antigone è trasformata in cicogna da Giunone e Rodope ed Emo sono mutati in monti.
In giardino, nella peschiera rinascimentale, nuotano otto trote in sovrappeso. In mezzo al parterre cruciforme, uno stanco Ercole di pietra domina la scena. Intanto, uno stupefacente pozzo in mezzo al castagneto non lo guarda nessuno, gode la gloria segreta della vita in ombra. Su un muro di cinta lungo la peschiera a doppia esedra, si decifrano affreschi scrostati: uno in particolare con una donna nuda a cavallo di un cervo, inondato della luce verso mezzogiorno, è il mio preferito di tutto il palazzo. La verbena, in una aiuola pensile in pietra ollare irrigata mirabilmente da un percorso d’acqua d’altri tempi che contempla anche bacini di raccolta a forma di conchiglia, è rigogliosa. Però non partite da Piuro, soprannominata a sproposito «Pompei delle Alpi», senza prima aver assaggiato, al crotto Quartino, nella frazione Santa Croce, i pizzoccheri chiavennaschi – bianchi, più simili a gnocchetti – serviti in un tegamino di rame. Da far resuscitare i morti.