Il palazzo DuPeyrou a Neuchâtel

/ 24.05.2021
di Oliver Scharpf

A Neuchâtel, «Neuch» come la chiamava amichevolmente mio fratello ai tempi in cui studiava medicina qui, mi ha sempre colpito il colore delle vec-chie case. La pietra gialla di Neuchâtel, detta anche di Hauterive, risalente al Cretaceo inferiore, vale a dire centinaia di milioni di anni fa, ammalia discreta con le sue tonalità giallo ocra che mi fanno venire in mente per prima cosa, lo zabaione. «È il colore giallastro delle pietre con le quali i muri sono costruiti che dona alla città l’apparenza di un immenso giocattolo scolpito nel burro» scrive Alexandre Dumas, nelle sue Impressions de voyage en Suisse (1834). A partire dalla stazione che perdipiù già allieta l’occhio fin da subito, appena si emerge con le scale mobili nell’atrio, attraverso i murales di Georges Dessouslavy dipinti tra il 1936 e il 1938 con tenui e vivaci colori a tempera alla caseina. In particolar modo quello lì, dove ci sono tre donne in barca con ombrellino e cappello di paglia, sulle acque del Doubs, tra le falesie postimpressioniste. E poi fuori, ecco i blocchi di pietra gialla che variano di tonalità uno dall’altro. Ma è camminando che si viene rapiti, qua e là, dai frammenti giallo burroso della pietra calcarea oolitico-bioclastica.

Arrivato in breve alla meta, scendendo dalla stazione in una decina di minuti neanche, rimango di stucco davanti ai parallelepipedi di pietra gialla sedimentaria marina che compongono il Palais DuPeyrou (447 m). Il Perù, ogni volta, anche se non c’entra un bel niente, mi fa venire in mente questa magnifica dimora costruita tra il 1764 e il 1770 per Pierre-Alexandre DuPeyrou (1726-1794). Nato a Paramaribo, capitale del Suriname a quei tempi colonia olandese, erede di una grande fortuna ottenuta con le piantagioni paterne di canna da zucchero, caffè, cacao e cotone. Anticlericale, deista, massone, amico di Rousseau, il suo bel ritratto svagato eseguito da un anonimo, con camicia bianca senza bottoni aperta sul petto efebico e giacchetta azzurra da flaneur, è appeso nella sala Rousseau della biblioteca cittadina. Eretta seguendo i piani dell’architetto bernese Erasmus Ritter (1726-1805), la casa considerata da molti la più bella di Neuchâtel se non addirittura dell’intero Cantone, davanti ha un bel giardino alla francese con vialetti a raggiera percorsi da gioviali tulipani screziati. Al centro degli otto vialetti ghiaiosi convergenti, una fontana è contornata da grandi arbusti di bosso potati conicamente. Una ragazza con vestito primaverile e occhiali da sole è seduta su una delle panchine ondivaghe di legno.

All’entrata del parchetto fanno la guardia due insolite sfingi – traccia rimasta dell’egittomania del committente che avrebbe voluto anche la sua tomba tipo piramide egizia – in topless. Un po’ il simbolo stravagante del palazzo di proprietà della città dal 1859 e che da anni ospita un rinomato ristorante attualmente con sedici punti Gault & Millau. Dove ho riservato ieri sera un tavolo fuori in terrazza, appena riaperta dopo la chiusura pandemica. E così, una bella giornata di maggio, mi siedo puntuale alla mezza. All’ombra degli ippocastani potati a candelabro che filtrano il sole, posato, in parte, sulla tovaglia degli altri tavoli disposti con cura davanti al palazzo DuPeyrou che si eleva elegante con stucchi, colonne, stemmi. I saloni, sbirciati andando in bagno, spesso utilizzati per matrimoni eccetera, sono abbastanza lussureggianti in stile Louis Seize. Il tartare di asparagi e altre verdurine tipo piselli, servito su un piatto giapponese turchese, rallegra il palato anche grazie al cerfoglio, l’aneto, e germogli di nonsocosa. Da ventitré anni tiene le redini del ristorante, assieme alla moglie Françoise, lo chef australiano Craig Penlington. Daniel Aymone era lo chef qui nella primavera 1983, quando balza agli onori della cronaca per un piccolo scandalo a proposito di un dessert proibito. Servì al presidente Mitterrand un soufflé glacé all’assenzio, illegale all’epoca, finendo perfino perseguito penalmente.

Gustando il gratin di pesce con frutti di mare, cerco, invano, di individuare, percorrendo la superficie della facciata, i detriti di echinodermi. Presenti – oltre a foraminiferi, anellidi, lamellibranchi, brachiopodi, briozoi – nella pietra gialla sotto forma di minuscole tracce fossili classificate come bioclasti. Divertente, come passatempo – ma dovrei avvicinarmi e abbandonare queste deliziose capesante avvolte da un delicato curry verde e latte di cocco – sarebbe anche trovare gli ooliti. Piccole sfere di diametro massimo grande due millimetri sparse pure, come gli elementi figurati dei bioclasti, nella pietra a tratti color caramello. Prima del dessert, piatto di formaggi della famosa cave: memorabile brie de Meaux al tartufo nero del Périgord e stilton da antologia. Le due stradine – qui ai lati della proprietà – che scendono incontrandosi sul Faubourg de l’Hôpital, riuniscono due vecchi amici: le hanno infatti chiamate Avenue Jean-Jacques Rousseau e Avenue DuPeyrou. Mentre il crumble di rabarbaro e mela incontra, sposandosi a meraviglia, il sublime gelato alla vaniglia. Allenandomi a contare i punticini neri del baccello di vaniglia contenuti nel gelato servito in forma di quenelle, potrei quasi andare sul serio, dopo il caffè, a caccia di ooliti.