Teglio, anticamente Tellium, ha dato il nome a tutta la valle ed è la patria dei
pizzoccheri. Posto su un terrazzo del versante retico della Valtellina, qui quindici anni fa è stata perfino fondata l’Accademia del Pizzocchero di Teglio. Il suo nome però è anche legato a palazzo Besta, dimora rinascimentale verso la quale m’incammino subito dopo colazione. Costruita verso il 1490 a partire da una struttura medievale per desiderio di Azzo Besta, abbellita da Azzo II e sua moglie Agnese, dal 1720 in poi passa di mano in mano – famiglia Morelli, Juvalta, Parravicini – e agli inizi del Novecento viene occupata da alcuni contadini diventando stalla e fienile. Alla fine di viale Eugenio Morelli, a una curva, eccolo lì, salvato in tempo dalla rovina, palazzo Besta (825 m): sullo sfondo sfilano le alpi Orobie innevate un mattino di dicembre. Svettano anche quattro strambi comignoli con i segnavento. La facciata è percorsa da una fascia di losanghe bicolori a scacchiera. Novit paucos secura quies è scolpito nel marmo del portale: «È per pochi la quiete sicura». A margine del motto tratto dall’Ercole furioso di Seneca, medaglioni cesellati con un pellicano che si becca a sangue il petto – simbolo cristiano ma anche massonico e alchemico – e una fenice che si sa, risorge dalle sue ceneri. All’interno dell’arco, una serie di marmoree rose mutevoli, alle quali uno studioso amatoriale ha dedicato pagine intere d’infervorata interpretazione tra l’esoterico, la numerologia, e il disturbo delirante. L’antica porta in ferro battuto di solito chiodata, è insolitamente stellata. Dentro, subito a destra, nelle cantine, trovo le tre steli rinvenute nel febbraio 1940 in occasione dello scasso per un nuovo vigneto non lontanissimo da qui, in località Caven. Tra le tre steli risalta la più nota, l’enigmatica terza stele di Caven detta Caven 3. Linee parallele e cerchi concentrici tracciano sulla superficie di granodiorite tonalitica, una Dea Madre cicciotta tipo matrioska ultrastilizzata. Venerata milleottocento anni avanti Cristo come dea della terra e della fertilità, alcuni vedono invece incisa in questo monolite, una cometa. Peccato solo che esposta così alla carlona, conficcata tra caccole di argilla espansa per scadenti orchidee olandesi d’appartamento, un po’ viene penalizzata. Il cortile lascia a bocca aperta: un porticato ritmato da quattro arcate a tutto sesto per lato, sovrastate da un loggiato al primo piano che raddoppia le colonne creando arcatelle grandi la metà. Sopra le quali lo sguardo sale a beccare i frammenti bluastri sopravvissuti dell’Eneide di Virgilio, cibandosi così a intermittenza di questi pezzi semicancellati attribuiti alla bottega bresciana di Vincenzo de Barberis. Fino a sfuggire in cima: quattro garguglie draghesche spuntano nel quadrato di cielo dove passano le nuvole. Oltre le fauci del mostro che raffigura l’Averno, si nota l’unico personaggio scappato dal monocromo delle scene virgiliane sparse. Un’ipotesi azzarda che sia Ortensio Lando, errabondo umanista ospite alla corte dei Besta considerato da Maria Luisa Gatti Perer, il consulente iconografico del palazzo. Ad ogni modo è proprio nel Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia ed altri luoghi (1554) di Ortensio Lando che vengono nominati per la prima volta, nella tappa di Teglio, i pizzoccheri. Naso all’insù ma con i piedi per terra: il pavimento di pietre a spina di pesce vale la gita. Dal viaggio di Enea, salendo le scale, passiamo al piano nobile: affreschi ariosteschi adornano il salone d’onore. Un ciclo pittorico di ventun riquadri ispirati dall’Orlando Furioso (1516) di Ludovico Ariosto scorre per tutta la stanza. Sono attratto, come nella lettura liceale del prodigioso poema cavalleresco, dalle scene dove interviene il meraviglioso. Come laggiù, dove una stralunata Angelica nuda in groppa a una specie di idra rossiccia con testa di ghepardo fugge magicamente – al posto dell’anello mangiato per sparire nel decimo canto – da Ruggero. L’ippogrifo c’è ben tre volte. In un angolo porta Astolfo sulla luna per recuperare l’ampolla con il senno di Orlando. In questo riquadro sono rappresentate anche le «versate minestre» in forma di zuppiere volanti che un incompetente in vena di protagonismo, su un settimanale di Sondrio, presumeva fossero ufo. Qua e là, altre meraviglie. Una fantastica volta a ombrello, l’odore di cembro delle stue settecentesche, la freschezza dei colori nella sala della creazione conservata al meglio grazie al fieno dei contadini che ha assorbito l’umidità, la scoperta lì sulla mappa astrale del tredicesimo segno zodiacale chiamato Ofiuco, il mar rosso del planisfero, il panorama orobico dalle finestre, grottesche con frutta mista e dragonerie varie, la scimmia e lo struzzo nella sala da pranzo, lo stemma dei Besta avvistato nelle banderuole forate segnavento: un leone appoggia una zampa a un pino, l’alcova con le metamorfosi di Ovidio, la sepoltura del falco preferito da Azzo II che ha cacciato duemilacinquantotto quaglie e cinquecento pernici.