Da un anno ormai siamo confrontati con mutamenti più o meno profondi, più o meno dolorosi, delle nostre consuetudini esistenziali. È mutato il nostro rapporto con il tempo ma, pur nel malessere e nel disagio, di questo spaesamento temporale abbiamo potuto immaginare anche qualche segno positivo.
Privati di un tempo reale, sempre pronto ad accoglierci sulla scena del mondo con le sue ingannevoli velocità, siamo stati invitati a meglio percepire e vivere le lentezze di quel tempo dell’anima che si è offerto a noi nei momenti di solitudine. Non sappiamo se, e come, sia stato ascoltato questo invito. Di certo questo tempo sospeso ha a che fare con le risorse che ciascuno di noi custodisce per cercare di star bene anche nei momenti più difficili.
Spazio e tempo, lo sappiamo, sono due categorie imprescindibili dentro cui si fonda la nostra esperienza del mondo, la possibilità stessa di abitarlo e di pensarlo.
Possiamo allora immaginare che questo tempo mutato abbia in qualche modo mutato anche il nostro rapporto con lo spazio?
Direi di sì. Basterebbe osservare, ad esempio, quella che chiamerei una vera e propria metamorfosi dei luoghi. I parchi delle città si sono riempiti ogni giorno di più: piano piano ogni spazio si è reinventato, è diventato un vero e proprio microcosmo. Un «troppo pieno», quasi, di voci intrecciate in molteplici racconti improvvisati e inattesi. Un grande affresco, una polifonia, anche, di varia umanità. Varcato il cancello, però, delle città ti venivano addosso altri luoghi: spazi vuoti, riempiti solo da un silenzio cupo e triste che pareva trafiggerle fin dal marciapiede.
Queste metamorfosi dei luoghi sembrano dunque indicare che lo spazio è molto di più di un luogo misurabile nella sua fisicità, un punto qualsiasi disegnato su una cartina geografica; sembrano indicare che ogni luogo è un dove che ci parla più in profondità del nostro vissuto, proprio come accade con la percezione del tempo. I luoghi sono anche luoghi di senso che raccontano la nostra vita e il nostro modo di abitarla.
Ma come la raccontano? Questa è la domanda, perché questi luoghi ci parlano del mondo che abitiamo, del nostro ambiente vitale, del nostro rapporto con la natura.
Come ben sappiamo, la storia del nostro rapporto con la natura è storia di una perdita progressiva del sentimento di appartenenza. In una realtà divenuta sempre più oggetto di conoscenza scientifica, anche madre natura è diventata una risorsa nelle mani dell’uomo. Gli attuali squilibri ecologici hanno a che fare con il sempre crescente potere dell’uomo sulla natura.
I problemi sorti con la pandemia possono rivelarsi allora come una buona occasione per riflettere sulle derive del progresso. Possono essere un invito a ripensare lo spazio e le forme della sua abitabilità da parte dell’uomo.
Il filosofo francese Bruno Latour ha appena pubblicato un saggio dal titolo Où suis-je?. Come suggerito nel titolo, si tratta proprio di un invito a ripensare lo spazio come categoria fondamentale per comprendere il significato della nostra vita e la nostra presenza nel mondo. La questione identitaria non è più «chi sono?» ma «dove sono?».
A me pare una visione a cui prestare la massima attenzione, forse un punto di svolta.
Che cosa ha cercato e cerca di insegnarci questo virus tanto minaccioso, si chiede il filosofo. Che il mondo appartiene anche a lui, che il mondo è innanzitutto dei virus perché il grande, l’atmosfera, è conseguenza dei piccoli, che la mutazione è il loro compito e che noi siamo, per virus e batteri, una grande esperienza darwiniana. Il virus ci ricorda che è lui il più antico attore della vita sulla terra. È a casa sua, siamo a casa sua. Piuttosto che in una guerra, dobbiamo impegnarci a reimparare a stare al mondo. Dobbiamo «atterrare sul sistema terra», dice Latour, imparare finalmente la lezione dei virus per reimparare ad abitare lo spazio terrestre di cui avevamo dimenticato il limite e la vera consistenza.
Non una crisi dunque ma una mutazione verso una metamorfosi del nostro stare al mondo, da nutrire di altri valori.
Dove sono? Questo nuovo modo di interrogare il senso della vita appare come un «conosci te stesso» rinnovato, che ci riporta al significato originario del messaggio scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. Quel «conosci te stesso», che ha attraversato tutta la storia della nostra civiltà e ha nutrito le nostre coscienze, indica innanzitutto il compito di conoscere il nostro posto nell’universo. Non a caso questo messaggio immortale si trova accanto a quel «nulla di troppo» che allude al valore della misura come bussola esistenziale per tenere sotto controllo il desiderio di potere degli uomini.