«La maggior parte delle persone mette da parte la propria infanzia come un vecchio cappello. La dimenticano come si fa con un numero di telefono che non esiste più. Un tempo sono stati bambini, poi sono diventati adulti, e adesso? Solo chi diventa adulto e rimane un bambino è un essere umano». L’ho riletto in un caldo, caldissimo pomeriggio di fine luglio sul retro di copertina di un libro in tedesco che lessi da bambina Das doppelte Lottchen (La doppia Carlotta) di Erich Kästner. Ricordavo di averlo letto ma non avrei saputo dire dove fosse finito e, soprattutto, non ricordavo questa bellissima citazione. Dovevo mettere a posto il box di casa per ritrovarlo e riaverlo tra le mani così come tutti i miei quaderni e libri di scuola dalle elementari in poi, i diari, le cartoline dei miei compagni e amici, il libro Cuore con la dedica dei miei genitori.
Ricordavo perfettamente ogni copertina, ognuna evocatrice di profumi, sensazioni, circostanze, ricordi, alcuni anche molto nitidi, che però altrimenti sarebbero rimasti assopiti ancora per un po’ in un cassetto della mia testa. Sommersa dalla polvere e da scatoloni ammuffiti, mi sono seduta in terra e, uno ad uno, ho sfogliato i quaderni di italiano. C’erano i temi sulle vacanze estive con tanto di fotografia incollata sulla pagina. In una siedo accanto a due piccoli amici della spiaggia mentre mangio il gelato, sull’altra, in spiaggia, sono accanto a mio nonno Peter che ogni mattina mi portava a fare delle lunghe nuotate fino alla boa. Che ricordi! E il diario delle dediche? In Germania a scuola si usava comprare una sorta di diario per farlo girare tra i propri compagni e amici. Ognuno si prendeva l’impegno e il piacere di scrivervi una dedica, una poesia o un semplice testo con tanto di disegno. Si faceva a gara tra chi avesse scritto la poesia più bella e ci si sentiva onorati se capitava di averla nel proprio diario. Che gioia anche ritrovare le cartoline ricevute in estate, che testi buffi, e dalla calligrafia sono ancora riuscita a riconoscere tutti ancor prima di leggere la firma in fondo. Le poesie che la maestra Rosa ci insegnava alle elementari come Merry-Go-Round di Langston Hughes «Dov’è il posto per Jim Crow Su questa giostra? Signore, perché io voglio salire...Dov’è il cavallo per un bambino negro?». E mi è venuta in mente l’utopia dell’istruzione per tutti di Marc Augé, l’unica in grado di frenare una società ineguale e ignorante condannata al consumo e all’esclusione. Ma anche le sue riflessioni sulla nostra vita sociale che ha bisogno del tempo e dello spazio perché le relazioni e gli incontri di fatto avvengano e maturino.
Perché vi racconto tutto questo? Perché un domani non avremo più scatoloni da riordinare e ricordi in cui imbatterci per caso, avremo tutto su dei supporti digitali, in nuvole tanto leggere quanto impalpabili. Avremo più spazio per mettere via altre cose, saremo più leggeri durante i traslochi... Ma, temo, l’ordine e la semplificazione tecnologica uccideranno la magia dell’incontro inaspettato, del ricordo che affiora prepotente, misto a un sapore dolce e acre, in un caldo pomeriggio di luglio in cui ti stai interrogando sull’essenza dell’essere umano, sul senso della vita perché sai che stai per perdere una persona amata. E ridendo dei tuoi vecchi disegni sgangherati, dei commenti della tua insegnante «sei disordinata», perché disordinata lo sei ancora, sei grata di tanti insegnamenti che hanno contribuito nel tempo a fare di te ciò che sei oggi.
Metto tutto a posto, salgo in casa e prendo in mano il giornale. Leggo sul «Corriere della Sera» che in autunno cellulare e tablet torneranno in classe per un uso consapevole e didattico di questi dispositivi digitali parte ormai della vita quotidiana dei ragazzi. Auguro loro, tra qualche anno, di poter fare gli stessi incontri che ho fatto io ed emozionarsi per una vecchia poesia imparata a scuola. E mi chiedo se riusciranno a sentirne l’odore ritrovandola nella memoria di un tablet...