Il museo Segantini a St. Moritz

/ 20.01.2020
di Oliver Scharpf

La posizione prescelta per il museo-mausoleo sorto nel 1908 in memoria di Giovanni Segantini (1858-1899) proviene dal punto in cui, nel dipinto centrale del Trittico delle Alpi, convergono i raggi del sole appena tramontato. Alle spalle del panorama di montagne catturate in controluce sullo Schafberg (2731 m) dove a quarantun anni, il ventotto settembre, Segantini muore di peritonite in una baita. Il luogo, individuato dal Comitato per il Museo Segantini, si trova sulla strada per Champfèr, al limitare del bosco di larici e cembri dove entro ora assaporando a ogni passo lo scricchiolare della neve sotto i piedi. Nuda, una donna mimetizzata come le pernici bianche emerge da un blocco di marmo di Carrara. Monumento mezzo innevato scolpito da Leonardo Bistolfi (1859-1943) per la tomba al cimitero di Maloja dove è sepolto il famoso pittore paesaggista apolide nato ad Arco di Trento e approdato lì, preda della luce, nel 1894.

Astronomico e sacrale ecco ergersi sul pendio boscoso il museo Segantini a St. Moritz (1874 m) come un tempio in pietra locale, la cui cupola con dodici finestre-oblò, è cosparsa da piode in serpentino della Valmalenco. L’edificio, tutto in sassi che si sposano a meraviglia con neve e conifere, è disegnato da Nicolaus Hartmann (1880-1956) junior: architetto già incrociato per via dell’hotel Castell a Zuoz e autore tra l’altro anche dell’ala occidentale del Badrutt’s Palace, del Museum Engiadinais non lontano e altra roba nei dintorni. Il museo richiama di certo il Pantheon, il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, altri battisteri ed edifici sacri circolari con cupola, ma non smette di ricordarmi molto alcuni osservatori astronomici. Orientato verso lo Schafberg, lassù in cima sopra Pontresina, stabilisce un legame tra quella morte in altitudine dipingendo fino alla fine l’ultima tela e la vita di ogni visitatore. La vista abbraccia, qui sotto, il lago semighiacciato ai piedi del Piz Rosatsch ombreggiato da magnetiche cembrete. Sul ghiaccio nero, temerari pattinano. Lo spunto chiave seguito da Hartmann però, è lo schizzo di Segantini stesso per il padiglione circolare che avrebbe dovuto accogliere, in occasione dell’esposizione universale di Parigi nel 1900, il panorama engadinese mai realizzato. Proclamato da Segantini come «il più grande panorama di tutti i tempi» al quale dovevano partecipare Hodler, Amiet, Giovanni Giacometti con tanto di effetti speciali illusionistici e già finanziato in parte da diversi albergatori della regione ma naufragato a fine gennaio 1897.

Il Trittico delle Alpi nasce da questo grandioso progetto arenato ed è all’origine della cupola, baciata ora dal primo sole d’inverno, dove è custodito accarezzato di continuo dalla luce engadinese che entra dall’alto. Prima dell’alba mi sono svegliato per essere, verso mezzogiorno, seduto nella cupola a contemplare il trittico tornato al suo posto che secondo me non dovrebbe mai lasciare. Con lo sforzo fatto da Segantini per salire sullo Schafberg a dipingere fino all’ultimo il paesaggio, il minimo è venire qui e fare religiosamente i diciotto scalini che portano su dentro la cupola. Solo qui, in realtà, si può vedere come si deve il trittico. Prima di varcare la soglia, butto un occhio alla targa commemorativa in bronzo posta nel 1941 con il profilo in bassorilievo di Oscar Bernhard (1861-1939): medico di Samedan iniziatore del museo e amico di Segantini che accorse a soccorrerlo invano trovandosi poi al suo capezzale. La Morte (1898-99), appeso a destra dello spettatore, è illuminato in pieno dalla luce che proviene da una delle finestre in alto, a volta, verso il lago. Ho letto da qualche parte che il momento migliore per venire qui è sul mezzogiorno. In realtà dipende anche dalle stagioni, ma alla fine non c’è un orario migliore di un altro.

I tre dipinti, esposti alla perfezione contro lo sfondo verde oliva che confina con il biancore del soffitto, vivono anche molto di luce propria. Ad ogni modo alle undici e trentanove a metà gennaio, centoundici anni esatti dopo l’apertura al pubblico, mi siedo sulla panca-parallelepipedo in legno. Nel paesaggio innevato di Maloja all’alba si nota l’incompiutezza delicata del cavallo che aspetta chino con la slitta, la salma. In faccia La Vita (1896-99): Soglio all’imbrunire con donne e mucche e l’ultima luce sulle montagne. Al centro della sala rotonda con il parquet a spina di pesce, La Natura (1897-99): il mastodontico ultimo quadro con quel cielo da non crederci che ti cattura e prende gran parte di questa tela divisionista di quattro metri circa per due e mezzo. Non per niente, oltre Alpentriptychon, come titolo si utilizza Trittico della Natura. In controluce c’è anche il vitello tirato da un’alpigiana stanca e spintonato dal muso della madre dietro, la neve della Val Roseg, il disegno incorniciato del pavillon per il panorama, il ticchettio dell’aggeggio che misura temperatura e umidità nella sala. Eppure lo sguardo torna sempre a quel cielo che vibra in eterno con una sola nuvola. Seguendo il tragitto dei raggi nel cielo al tramonto su in cima allo Schafberg – un po’ come si insegue la parabola di un arcobaleno per sapere dove gli gnomi hanno sepolto la pentola piena d’oro – si plana verso il lago di St. Moritz dove è prefigurato il posto dove sono seduto adesso in un non tempo.