Il museo Rietberg di Zurigo

/ 23.11.2020
di Oliver Scharpf

Un padiglione di vetro color smeraldo, di fronte a Villa Wesendonck, in cima a un collinetta di un grande parco pubblico non lontano dal lago, è l’unica traccia del prodigioso ampliamento sotterraneo – ad opera, nel 2007, di Grazioli e Krischanitz – del museo Rietberg. Lo spunto, per il padiglione in faccia alla sede del museo d’arte extraeuropea nato nel 1952, proviene dal secondo verso di una delle cinque poesie scritte da Mathilde Wesendonck (1828-1902) e musicate da Wagner, ciclo noto come Wesendonck-Lieder: Baldachine von Smaragd. Baldacchini di smeraldo: così, l’amante o musa di Wagner, moglie dell’industriale della seta e mecenate tedesco Otto Wesendonck (1815-1896) – committente della villa neoclassica sorta nel 1857 che catturo  ora con lo sguardo – vedeva i portapiante nella serra. Im Treibhaus, nella serra, non per niente è il titolo di questo terzo Lied, considerato – assieme al quinto, Träume – uno studio preparatorio per il Tristano e Isotta (1865) composto da Wagner quando era ospite qui.

Tra aprile 1857 e luglio 1858, in un cottage – oggi invisibile perché sostituito da Villa Schönberg tutta di mattoni rossi che comunque attrae wagneriani da tutto il mondo ostinati a percepirne l’aura – accanto alla villa dei Wesendonck. Le cui colonne doriche sono baciate adesso dal sole mattinale. Il museo, però, trae il nome da Adolf Rieter (1817-1882), altro industriale, della lana, di Winterthur, che nel 1871 compra villa e parco, diventandone anche di questo, l’eponimo. E così, al Rieterpark, verso le dieci di mattina a metà novembre, dopo una breve camminata dirottata un po’ dall’incanto di tre ginkgo biloba autunnali le cui foglie magiche sono in parte per terra, entro al museo Rietberg (439 m) di Zurigo. C’ero stato un paio di anni fa, per la mostra sulle misteriose linee Nazca tracciate nel deserto peruviano.

Il padiglione-parallelepipedo di smeraldo, ricamato con motivo geometrico ipnotico in filigrana, contiene bookshop e cassa, subito accanto alla quale scendono le meravigliose scale tutte in legno chiaro. Scalini, corrimano che accarezzo con il palmo, pareti, tutto, in legno di quercia. In modo da infondere intimità, passo dopo passo, togliendo di mezzo il mondo esterno. Le pareti, soprattutto, reticolate, ricordandomi la leggerezza dei paraventi di case del tè giapponesi o l’ariosità delle mashrabiya nelle medine, mi fanno sprofondare in un altrove. La superficie traslucida verde bluescente, simile alla giada, di alcune ceramiche cinesi della dinastia Song (969-1279), m’intontisce in partenza. In particolar modo, da una ciotola-fiore di loto – della collezione Meiyintang che nel 1994 stupì mezzo mondo accorso al British Museum e dal gennaio 2013 parte della permanente del Rietberg grazie ai fratelli Zuellig – proveniente dalla provincia di Zhejiang, dietro le vetrine perfettamente illuminate, di una bellezza epurata da tutto, non riesco a staccare gli occhi. La serenità indomita di un Guanyin, il bodhisattva della compassione, in pietra, con braccia mozzate e naso sbriciolato, mi accompagna poi, come farmaco a lento rilascio, per un pezzo di viaggio giù nel Congo, tra amuleti fatti con denti d’ippopotamo, sculture Luba di divinità – donne stralunate. Poi nel Mali incontro le esili figure propiziatorie dei Dogon, alcune con ancora la patina del sangue sacrificale di capre sgozzate. Lo sfondo nero, il soffitto lattescente luminoso, le poltrone in pelle: il visitatore non può chiedere di meglio per astrarsi.

Scendo ancora più giù nel profondo, al secondo piano sottoterra dedicato alle esposizioni temporanee. Gigantesche porte di vetro si spalancano su minuscoli paesaggi d’inchiostro dipinti su carta centinaia di anni fa in Cina: montagne innevate, torrenti, spazi vuoti, fragili capanne di eremiti, acrobatici Pinus hwangshanensis aggrappati alle rocce, avvolte dalla nebbiolina tipica. Il bunker, arioso, affina la visione fino quasi a poter scomparire immergendosi in questi paesaggini selvaggi. La natura ancestrale rivive negli occhi. Un rombo aereo distoglie l’attenzione. È Phantom Landscape (2010) di Yang Yongliang, classe 1980: un video-quadro dove l’apparente idillio panoramico di montagne e acqua, a guardarlo meglio, si rivela divertente megalopoli apocalittica con cascate dai grattacieli, sul traffico.

Risalgo le scale per il deposito in bellavista: appena passi s’illuminano le vetrine dove, tra miriadi di pezzi, già solo due gatti in bronzo del primo secolo avanti Cristo, varrebbero la pena. Riemergo, come in un passaggio segreto, nella villa liederistica disegnata dall’architetto Leonhard Zeugheer (1812-1866). Dove tra felci in vaso per le scale e marmo senape, sono accolto da un gruppo di divinità indiane tra le quali un bel Ganesh. È la collezione di Eduard von der Heydt (1882-1964) – il barone con la faccia da Budda e lo sguardo da volpe che si era comprato tutto il Monte Verità – all’origine di questo museo. Sprazzi di lago ai piani superiori, maschere di sciamani siberiani, cervi inginocchiati. Fuori, mi siedo su una vecchia panchina verde davanti a Villa Wesendonck. Il collegio da incubo, chiamato non a caso Mädchen Internat Richard Wagner, che appare, diverse volte con le finestre illuminate nella notte e la musica incalzante dei Goblin, in Phenomena (1985) di Dario Argento con la graziosa Jennifer Connelly come protagonista (che ha una speciale empatia per gli insetti grazie alla quale risolve la serie di spaventosi delitti nei dintorni).