Il museo delle spie

/ 21.01.2019
di Natascha Fioretti

Il museo delle spie di Berlino a Leipziger Platz, vicino a Potsdamer Platz, dove ancora ci sono i segni del passaggio del muro – quest’anno cadono i trent’anni dalla caduta – ma anche quelli evidenti di una ricostruzione in chiave moderna della capitale tedesca nella quale sempre meno sopravvivono le facciate storiche, è stato una meta casuale dettata dalla curiosità di un amico appassionato di storie di agenti 007. 

Non nutrivo grandi aspettative ma ho dovuto ricredermi. Quanto sono belle le scoperte inattese, quelle che capovolgono i nostri pensieri specie in una nevosa e fredda mattina di dicembre quando hai l’impressione che il mondo sia sospeso e l’unico tuo desiderio è tenere tra le mani una tazza di caffè caldo mentre osservi il mondo là fuori. Prima la visita. Pensavo che avrei visto una mostra rivolta prevalentemente al passato e concentrata sui linguaggi, i codici e i metodi di sorveglianza e spionaggio della guerra fredda. Molti di voi sapranno che a Berlino c’è il famoso ponte di Glienicke, soprannominato il ponte delle spie, usato dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti durante la Guerra Fredda per lo scambio delle spie prigioniere. E invece no, biglietto d’ingresso alla mano con tanto di codice QR e la simpatica scritta «Burn after visiting», si entra attraversando un muro fatto di schermi sui quali corrono le immagini del nostro tempo, una narrazione simbolica di ciò che sta accadendo là fuori nel mondo mentre noi siamo lì dentro. Una su tutte: un’attivista di Anonymous che rivendica un attacco hacker. Poi una serie di videocamere alla parete puntano dritte verso di te e immediatamente ti senti in una sorta di grande fratello e d’un tratto ti chiedi: sarà poi vero che siamo costantemente spiati e sorvegliati? Dobbiamo preoccuparci? 

Mentre ci pensate vorrei iniziare col dirvi di stare tranquilli perché le spie e le attività di spionaggio sono sempre esistite. Già nel VI secolo a.C. il re di Persia, Ciro II, si avvaleva di una efficiente rete di agenti segreti, così come i greci e i romani attraverso i loro agenti spiavano tanto i nemici quanto il loro popolo. E comunicavano attraverso messaggi criptati – vedi il cosiddetto cifrario di Giulio Cesare. Dunque, ancora una volta, non abbiamo inventato niente ma sicuramente, grazie al progresso tecnologico e scientifico, ci siamo affinati in tanti campi. A questo proposito cito le parole di Yuval Noah Harari, autore del saggio 21 lezioni per il XXI secolo, su «Robinson» due settimane fa: «Che cosa avrebbero fatto, il Kgb e l’Inquisizione, potendo disporre di braccialetti biometrici che sorvegliano costantemente singoli stati d’animo e preferenze? Per nostra sfortuna è assai probabile che lo scopriremo presto». 

La mostra si conclude con le grandi spie del nostro tempo: Julian Assange, Chelsea Manning, Edward Snowden, William Mark Felt Sr. e altri. E mi sono tornate in mente le parole di Zygmunt Bauman a «re:publica» nel 2015 quando diceva che rispetto agli anni del secondo dopoguerra, anni in cui giovani come lui sognavano la privacy e temevano invece di essere spiati e costretti ad agire secondo il pensiero dominante, noi abbiamo dimenticato il significato e la necessità della privacy, il diritto umano fondamentale a stare soli con noi stessi. Grazie al telefono, ai social, al computer non siamo mai soli mentre i nostri dati vengono raccolti su qualche server remoto nel deserto. E, tornando alla domanda iniziale, se dobbiamo preoccuparci, Bauman dice: «Sanno molto più di noi di quello che pensiamo, questo è il problema». Va ancora oltre Yuval Noah Harari quando dice che noi esseri umani siamo «animali hackerabili» e il nostro «sistema operativo è a rischio». 

Anche di hacker buoni come Felix «FX» Lindner ci racconta la mostra delle spie, una mostra che ci confronta con lo specchio del nostro tempo e ci ricorda che, se anche i governi totalitari e le atmosfere da guerra fredda sono storia, oggi grazie alle nuove tecnologie, ai big data, ai supercalcolatori, a internet siamo costantemente sorvegliati, spiati e hackerati. Houston, abbiamo un problema.