Il Moro di Trübner

/ 13.06.2022
di Melania Mazzucco

Il modello ha superato la trentina. Posa per un pittore di ventun anni, tedesco di Heidelberg, biondo, gli occhi celesti e la pelle colore del latte. Il modello invece è moro. I suoi lineamenti e la carnagione rivelano che proviene dall’Africa. Siamo nel 1872, in italiano l’aggettivo «negro» ha ancora una sfumatura aulica e letteraria, si usa per lo più per indicare qualcosa di scuro – la terra, il dolore. Sono entrambi stranieri e Roma li ha accolti con la stessa distratta benevolenza.

Non conosciamo il nome del Moro. Il pittore invece si chiama Wilhelm Trübner, ed è in viaggio di formazione, come i giovani aspiranti artisti che da secoli vengono a perfezionarsi a Roma, cercando ispirazione nella bellezza millenaria dei suoi edifici e in quella pittoresca dei suoi abitanti. E anche ad abbeverarsi di luce, colori e libertà. Disegnano e dipingono ruderi di templi e basiliche, paesaggi, fantasie storiche, ma anche persone. Roma, che da appena un anno è diventata la capitale del Regno dell’Italia unita, è ancora una cittadina di duecentododicimila abitanti, sovraffollata nei rioni della Suburra e di Trastevere, ma assediata dalla campagna e interrotta da terreni incolti e praterie di rovine. Spettacolo sublime di decadenza che estasia i pittori estetizzanti ma non Trübner.

A Monaco ha assimilato la lezione del maestro francese del realismo, Courbet. La verità – solo la verità. Forse i due si incontrano al caffè Greco di via Condotti, nel quale è permesso fumare tabacco: crocevia di artisti e intellettuali, ma anche di borghesi e funzionari dei ministeri appena trasferiti a Roma, che nelle sale Omnibus e del Fauno oziano, conversano, leggono i giornali. I quadri dei pittori stranieri che affittano gli atelier nei vicoli tra il Babuino e il Pincio tappezzano le pareti.

Wilhelm gli chiede di posare per lui, e il Moro accetta. Lo gratifica essere rappresentato in un ritratto. A un nero non capita spesso di diventare soggetto di un quadro – in passato poteva prestare le proprie sembianze al re magio, a un servo o a un paggio, ma sono figure ormai inattuali. Il Moro però è povero: forse lo invoglia di più la prospettiva di essere pagato per le sedute di posa. Quante? Trübner dipinge alla prima, come gli ha insegnato Courbet, con una pittura nervosa e veloce. Però il Moro è un soggetto di studio nuovo e stimolante, quindi gli chiede di tornare più volte. Chissà se durante le pose i due parlano, e di cosa. Alla fine Trübner dipingerà ben tre ritratti del Moro. Nel primo lo coglie di profilo, concentrandosi sul naso camuso, la barbetta riccia e nera, la stempiatura. Mette in primo piano un mazzo di fiori – rossi, bianchi e blu – e sullo sfondo il paesaggio, indefinito, di una città. Ma le peonie rosse dominano, tanto che il ritratto è conosciuto col titolo di Moro con peonie. I petali fiammeggianti contrastano col color notte della pelle del modello, e lo valorizzano. Il secondo invece è un ritratto frontale. Il Moro fuma un sigaro, seduto dietro un tavolo di legno scuro, con un borsellino aperto davanti a sé – vuoto. Il polsino bianco spicca dalla giubba scura, e la figura dallo sfondo arancio. Guarda il pittore, e noi, con distacco e quasi con ironia. Nel terzo ritratto, il Moro sta leggendo un giornale, il quotidiano politico «La libertà».

Trübner non mette in vendita i ritratti del Moro e quando, nel 1873, riparte per la Germania, li porta con sé. Finiranno nei musei tedeschi – a Heidelberg, Hannover e Francoforte – dove ancora si vedono. Il pittore avrà una onesta carriera, diverrà anche insegnante, e vivrà abbastanza a lungo da assistere al suicidio dell’Europa nella Prima guerra mondiale. Il Moro invece viene inghiottito dall’oblio. Ma i ritratti confermano che è esistito. Era a Roma, e ci ha vissuto. Ben vestito, benché senza un soldo, poteva andare al caffè a fumare un sigaro e leggere il giornale, come tutti gli altri. Uno fra gli abitanti di una capitale piccola eppure mai provinciale, cosmopolita da sempre, e abituata ad accogliere uomini di ogni lingua e nazione. Nel 1872 il giovane Regno d’Italia non ha ancora rivolto il suo appetito sul Corno d’Africa. Il Moro non suscita fastidio né fantasticherie di dominio.

Il Moro di Trübner non sa ancora di essere un Negro, di appartenere a una razza morente o inferiore. Seduto al tavolo del caffè, fuma, guarda il pittore, e noi. La forza del ritratto è tutta lì. La realtà diventa arte. La giubba lisa ma elegante, il sigaro, la pelle bruna, la posa frontale, il giornale fra le mani – riconoscimento della sua dignità e della sua umanità. Perché il Moro non è un bruto selvaggio, sa leggere, ed è anche sua l’aspirazione alla conoscenza e alla libertà. Nessuno lo invita ad andarsene.