Già i larici, in questo periodo dell’anno, da queste parti, valgono il viaggio. Giallo oro, baciati dal sole mattutino che ne accentua i riflessi accesi, costellano i boschi intorno a Zernez. Salendo in posta attraverso il Parco Nazionale, incendiano poi a perdita d’occhio il paesaggio, diventato espressionista del tutto quando si scende giù per la Val Müstair. «Megaschön» sintetizza una passeggera dietro di me. Bastian contrari delle conifere, molti Larix decidua ricamano di luminosa grazia, rapsodici o in truppe come là su in alto, le pinete anche qui a Müstair. Il paese più orientale della Svizzera – al confine con l’Italia dove la valle continua tedescofona come Val Monastero per un breve tratto in Alto Adige – adagiato placido sul fondovalle dove scendo ora, alla fermata Clostra Son Jon.
Il monastero benedettino di San Giovanni dal quale deriva, attraverso il termine latino monasterium, il toponimo romancio di questo paesino di settecentosessantaquattro anime dove si parla jauer, è dall’altra parte della strada. Odore lenitivo di letame appena sparso per i prati dove pascolano, beate, le mucche. La merlatura diagonale della torre Planta, attaccata alla chiesa carolingia triabsidale, si staglia contro il cielo azzurro. Sul campanile, fiamme di sole dipinte, i cui raggi si prolungano in frecce che indicano l’ora in numeri romani color rosso sinopia. Il segmento d’ombra segna, netto, poco prima di mezzogiorno; mentre l’iscrizione sopra il sole, personificato con un occhio, è di più ardua lettura. A stento si legge sIste VIator aC ConsIDera Una eX hIs erIt noVIssIMa tUa: epigrafe in cui è contenuto un cronogramma. Le maiuscole sono infatti cifre romane da sommare per conoscere l’anno di nascita di questa meridiana dall’umorismo nero. Dal 1773 si rivolge così ai viaggiatori non frettolosi: «Fermati viandante e pensa che una fra queste ore sarà per te l’ultima».
Ultime rose intrepide ai primi di novembre, in un’aiuola-semiroseto, sono in fiore in faccia al cimitero. Una signora anziana pulisce una tomba gettando fiori secchi in un sacco della spazzatura. Una zampa d’orso all’insù, cesellata nel marmo bianco di Lasa, nella vicina Val Venosta, cattura l’attenzione prima di entrare in chiesa. È lo stemma della famiglia Planta, il cui albero genealogico annovera Angelina Planta, badessa tra il 1478 e il 1509 che ha fatto ricostruire la torre che da lei prende il nome e risale intorno al 960: la più antica, dicono, di tutto l’arco alpino. Entro così, sul mezzogiorno, dentro la chiesa del monastero di Müstair (1246 m). Dal 1983 dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità per via del più grande dei cicli di affreschi giunti a noi dall’alto medioevo, molti scoperti solo negli anni cinquanta. Fondato nel 774 da Carlo Magno, per la grazia ricevuta, si racconta, dopo essere sopravvissuto a una tempesta di neve sul passo dell’Umbrail, di ritorno dalla sua incoronazione come re dei Longobardi.
A naso all’insù, mi ammaliano però per prima cosa le volte nervate tardogotiche con giganteschi affreschi floreali che si diramano dalle quattro colonne. Emergono poi solo in un secondo tempo, ai lati, i frammenti biblici sbiaditi di un rosso soffuso del ciclo di affreschi carolingi. Molti scomparsi, il resto gradevolmente nebuloso, a tratti color marmellata di rosa canina, con i cerchi delle aureole che risaltano. Vengo attratto da un dettaglio astratto: un meandro prospettico mezzo cancellato. Avanzando, ecco i colori più vivi degli affreschi tardoromanici nelle due absidi laterali, quella mediana è purtroppo coperta per un restauro. Oltre ai colori più intensi, spiccano le figure snelle e allungate. Nell’abside settentrionale colgo un apostolo martirizzato a testa in giù, un altro in ginocchio a cui stanno per mozzare la testa con una spada, dietro uno strano albero-fungo. Altra strana pianta si nota nell’abside meridionale con tre frutti enormi tipo fragole, a fianco della lapidazione di Santo Stefano. Tratti bizantini incontrano lo stile delle miniature saliburghesi, il tutto dipinto forse da una bottega veneta. Più sotto, nello zoccolo interno vicino alla statua in stucco di Carlo Magno, c’è affrescato un curioso e raro Mangiacolonna. Accendo un cero nella cappella delle Grazie dove ci sono appese braccia e gambe di legno come ex voto. Sotto la cantoria, una porta con citofono conduce nella parte di monastero-museo.
Il chiostro, con alle spalle le pinete inondate di luce, è una meraviglia. Lì, tra le erbe medicinali, svetta il verbasco noto anche come cero della Madonna. Altre cose degne di nota, girando qua e là, su e giù per scale disorientanti: due flauti ossei di capra, statua lignea della Madonna con una corona tipo matrigna di Biancaneve, un gatto biancoenero avvistato nell’orto, il finto marmo bluastro del refettorio che ricorda i formaggi erborinati, le celle odorose di cembro, il paesaggio accecante fuori che entra dalle finestre con svasatura conventuale, la scritta clausura sulle porte, il passaggio furtivo di una suora. Sulla sponda sinistra del Rom, metto sul fuoco il mio pentolino da viaggio. Non resisto a provare subito una delle tisane delle suore benedettine. Un miscuglio di erbe e fiori chiamato Herbstlicht: verbasco, primula officinale, malva, rosa, eufrasia, timo serpillo, salvia.