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Il mio capo è una donna

/ 26.02.2018
di Silvia Vegetti Finzi

Gentile Silvia,
sono una persona particolarmente socievole: ho amiche d’infanzia con le quali mi ritrovo abitualmente. Con altre, conosciute dopo, facciamo tante cose insieme come prendere un aperitivo, andare al cinema, viaggiare e condividere le vacanze. Pensi che mantengo regolari contatti persino con quelle che vivono all’estero! Non posso certo dire di avere difficoltà a comunicare con il mondo femminile. Come mai allora non riesco ad andare d’accordo con un capo donna? Cerco di mettercela tutta ma ogni volta le cose non funzionano. Incominciamo con le incomprensioni, gli equivoci, i sospetti e i risentimenti per finire in una guerra aperta, in un conflitto senza soluzione. Eppure in genere con i dirigenti maschi mi trovo bene. Mi sembrano più obiettivi, più giusti, più capaci di perdonare eventuali errori, soprattutto quando vengono commessi in buona fede. Vorrei cambiare atteggiamento ma non ci riesco. Mi potrebbe aiutare lei? / Manuela

Cara Manuela,
la tua situazione riflette quella di molte altre donne, forse di tutte. Crediamo che maschi e femmine siano ormai omologati, che le differenze non esistano più. Ma non è così e, al di là delle dichiarazioni ufficiali, continuiamo a confrontarci con il fatto che, superati gli stereotipi che contrapponevano i due sessi in modo caricaturale restiamo, per fortuna, molto diversi.

Un libro che ha fatto epoca Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, denunciava sin dal 1973 i condizionamenti sociali che modellano il ruolo femminile. Indubbiamente da allora molte cose sono cambiate, ma non tutte. E l’autorità e il potere funzionano proprio da cartina di tornasole sulle disparità che ci impediscono di essere, come vorremmo, differenti ed eguali.

Innanzitutto per motivi storici. Gli uomini sono sempre stati educati secondo il modello dell’esercito che comporta di comandare e obbedire secondo ferree gerarchie. Le donne invece erano destinate alla vita domestica e, nella famiglia patriarcale, il comando spettava esclusivamente al padre. Le donne si limitavano a frequentare parenti e vicine di casa con le quali intrattenevano rapporti ambivalenti, di affetto e di rivalità, temperati però dalla prossimità e dalla dipendenza dai rispettivi capi famiglia.

Nella famiglia nucleare, composta da genitori e figli, le relazioni tra donne si sono ulteriormente semplificate. Si svolgono in modo paritetico, soprattutto tra mamme dei compagni di classe dei figli. Il problema tra chi comanda e chi obbedisce si pone pertanto per la prima volta, in molti casi, nei luoghi di lavoro. Un ambito organizzato secondo la mentalità maschile dove l’arrivo delle donne non sembra aver mutato sinora i rapporti reciproci. Per far carriera le donne hanno cercato, salvo eccezioni, di mimare gli atteggiamenti e i comportamenti maschili, considerando la femminilità più un intralcio che una risorsa. Ma l’imitazione risulta spesso mal riuscita perché non corrisponde alla nostra natura e alla nostra storia. Spesso le lavoratrici per emergere devono faticare il doppio degli uomini, impegnarsi allo spasmo rinunciando ad altre priorità e, di conseguenza tendono, una volta arrivate in cima, a rivalersi con le sottoposte, soprattutto con la più intima collaboratrice. La quale a sua volta, ammettiamolo, spesso si isola dalle colleghe considerandosi la preferita.

Per i maschi tutto è più semplice perché, oltre il vantaggio della tradizione, hanno anche quello di avere un aspetto fisico che ispira autorità: la statura, i lineamenti, la voce grossa, il gesto calmo e imperioso esprimono un primato etologico, riconosciuto con immediatezza da tutti i primati. Per legittimarsi, le donne cercano allora di farsi valere imponendo alle collaboratrici atti di sottomissione come: fai immediatamente queste fotocopie, portami un caffè, fermati in ufficio oltre l’orario. Vi ricordate la figura un po’ grottesca ma significativa di Maryl Streep che recita la parte della insopportabile direttrice della rivista «Vogue» nel film Il diavolo veste Prada? Un incubo che molte conoscono.

Tuttavia tra autoritarismo e sottomissione propongo una terza strada, quella dell’autorevolezza. Un potere che nessuna si dà da solo, che deve essere meritato e che, in ogni momento, può essere ritirato da chi lo ha spontaneamente attribuito.