Il mestiere dell’Altropologo

/ 25.07.2022
di Cesare Poppi

Al momento di leggere questa Rubrica il vostro Altropologo di riferimento starà finalmente lavorando. Mi spiego: quando mi chiedono cosa faccia di preciso un antropologo, forse delusi dal fatto che non misura crani, non scava fossili di protoscimmie e quasiominidi né tantomeno mangia fagioli assieme agli Indiana Jones di questo mondo – o, peggio ancora, irritati dal fatto che stabilire cosa faccia quella sottovarietà della professione che è l’Altropologia è ancora più aleatorio – i miei interlocutori concludono che il sottoscritto non faccia proprio nulla. E così, sul dotto sito web Il Calidrino, una penna ignota descrive l’Altropologo nei termini seguenti: «Individuo di inscalfibile indolenza che, in luogo di occuparsi assiduamente dello studio approfondito dell’antropologia, si dedica ad altro».

C’è del vero, ma non è tutto. L’Altropologo passa la maggior parte del tempo ad osservare e prendere appunti. Scrivere e annotare. Poi fa dei disegnini promemoria perché cerca di usare la macchina fotografica il meno possibile in quanto poi gli chiedono cinquecento copie della stessa foto. Ogni tanto fa domande. Spesso risponde a chi chiede cosa stia facendo menando il can per l’aia perché non è mica facile spiegare… Del tipo: «Cosa sto facendo, Signor Poliziotto!? Beh… sto facendo ricerca… ricerco cosa, mi chiede?! Boh… le saprò dire quando l’avrò trovato, ma non è detto…». «Bene: mi segua al posto di polizia».

Questo con tutta probabilità lo scambio prossimo venturo con un agente di polizia del Ghana in divisa assolutamente nera che verrà con altrettanta probabilità risolto con un brindisi di birra da frigo (un lusso) al chiosco più vicino – tanti auguri e arrivederci alla prossima. La polizia del Ghana è grande: fossero tutte così. Te ne fideizzi uno e lui ti si fa garante presso i suoi colleghi. Ai posti di blocco cerchi Lui – e se non c’è lui in servizio chiedi di suo fratello – e sei in una botte di ferro. E la birra!? Corruzione? Estorsione? Ma fatemi il piacere: arrivi al posto di blocco dopo ottanta chilometri di pista infernale e non vedi l’ora di scendere dalla moto e condividere una birra (le Star o Club ghanesi sono top) con chi non se la può permettere. E prendi appunti gratis. Vuoi anche lagnarti?

Location: la città di Wa, capitale della regione del NordOvest del Ghana, ai confini col Burkina Faso e la Costa d’Avorio. «Wa» vuol dire «Città». Punto e basta, ovvero così chiamata da quando da qualche parte nel XVIII secolo – forse alla fine – bande di cavalieri in diaspora dopo l’implosione del mitico impero del Mali per l’esaurimento del traffico d’oro e lo sviluppo concorrenziale dell’industria degli schiavi a corto di idee non seppero come chiamarla: «Wa – l’Urbe». Appunto.

Inshallah: Wa è ancor oggi una città per adulti. Non per turisti estetici. Vero: ammetto, incasso e farò di tutto per chiudere gli occhi. I cinesi negli ultimi vent’anni hanno fatto l’impossibile per fare anche di Wa un’average town – una città globale – come le tante che stanno regalando in giro per quello che era il Terzo Mondo, una fotocopia di quello che è il terio-sino-urbanesimo, risultato – si badi – di indottrinamenti pagati a suon di tasse dottorali alle Università USA su programmati studenti cinesi ai tempi… Libera nos domine: riescono a fare ancor peggio di Mussolini ai Fori Imperiali. L’imperialismo occidentale? Il colonialismo? Uno straccio di rispetto per la sensibilità estetica locale? Trionfo di un trans-post-estetico gusto McDonald planetario. Con l’UNESCO a incassare con le riserve indiane del World Heritage… Sbircio fuori dalla finestra e rabbrividisco: il sogno cinese di un capitalismo a gestione centralizzata oggi vince e stravince. Altroché free market, altroché free elections per poi bisticciarsi a maggioranza in resta sui Dettagli del Nulla mentre Roma (e Kiev) bruciano. E non si vede un cinese nelle strade. «Deus ils vult/Dio lo vuole» si facevano assolvere i crociati prima di distruggere Costantinopoli nel 1204.

L’antropologo è tornato a casa. L’Altropologo ha selezionato i bagagli minimi per tornare ai villaggi più remoti della regione di Wa che lo accolsero senza chiedere né percome né perché né un affitto, né una rendita, né una quota pasti… sono quarant’anni che ci mangio a sbafo… Gli trovarono il suo posto nel villaggio e si dimostrò degno: digbun – «cacciatore di elefanti» il suo titolo honoris causa. Ma il suo nome segreto verrà rivelato solo al suo funerale dai tamburi parlanti delle maschere Sigma. Tutti sono invitati per una sbronza colossale – e ancora senza ID e senza PASS: gratis.

Uscire dal sentiero. Chissà chi, come e perché: è pertanto tempo di migrare.