Il mausoleo Maurice Sandoz a Chardonne

/ 20.06.2022
di Oliver Scharpf

Sopra Saint-Saphorin, tra i vigneti, al bordo dell’autostrada, sorge un assurdo tempietto greco-romano. Ex ottocentesco pavillon-rimessa per barche di una villa a Losanna riconvertito in mausoleo nel 1958, questo tempietto con vista mozzafiato sul Lemano è avvolto dalla maledizione di un’isoletta napoletana. Suicidatosi saltando giù dalla finestra di una clinica psichiatrica, lì, per sua volontà, riposa Maurice Sandoz (1892-1958): autore non conosciutissimo di raccontini misteriosi stile Edgar Allan Poe, collezionista di automi musicali, compositore, figlio del fondatore della famosa industria chimico-farmaceutica. L’assurdità e il mistero di questo posto mi motivano a salire di buon passo, in mezzo ai ripidi vigneti del Lavaux. Non proprio una passeggiata rintracciarlo senza nessuna indicazione. Il punto di riferimento, se volete avventurarvi anche voi, magari, un giorno, alla sua ricerca, è il Chemin d’Ogoz. A un certo punto di questa stradina sul territorio del comune di Chardonne, scorgerete delle inusuali conifere, a fianco delle quali, protetto da una siepe di cipresso, c’è il mausoleo Maurice Sandoz (551 m) al quale mi avvicino a metà giugno, verso sera. Costruito nel 1813 per Henry Andrew de Cerjat (1758-1835), colonnello del sesto reggimento inglese dei Dragoni, e sua moglie Susan, come insolita rimessa per barche in stile neoclassico, sfoggia quattro colonne con capitelli ionici che guardano l’autostrada A9.

Disegnato da Henri Perregaux (1785-1850), figlio dell’architetto del pollaio neogotico del parc du Désert a Losanna, in pericolo per via dell’allargamento di una strada, lo compra l’autore di Souvenirs fantastiques (1936) e Trois histoires bizarres (1939) il cui nome – inciso su un mosaico così così che riempie l’arco dove entravano le barche – si legge a malapena. Per rimontarlo, con lo stesso scopo, nella sua dimora a Tour-de-Peilz. Progetto irrealizzato finché nel 1955, cambio di rotta: depositato lì per anni, viene trasportato qui e rimontato, pezzo per pezzo, in vista di una nuova vocazione funeraria. Orientato in origine con le colonne verso il lago, Jack Cornaz (1886-1974), architetto locale fuori dal coro incaricato della sua ricostruzione, lo gira. Alla morte di Maurice Sandoz, il fratello, scultore animalier, si occupa di far deporre le ceneri e tutto il resto.

Mi arrampico sopra e sbircio dentro le vetrate. Sul pavimento, un lungo epitaffio-poema crea un tramite tra il visitatore e il defunto attraverso l’invocazione a farsi sedurre dal paesaggio e termina così: «presta ai miei occhi di morto le tue lacrime di vivente». Due uccelli in ferro battuto si baciano con il becco. In un altro mosaico senza infamia e senza lode, si notano maschere teatrali, ampolle da laboratorio, microscopio, cetra; simboleggiano banalmente alcuni interessi di Maurice Sandoz. Proprietario, per poco, della villa maledetta sull’isolotto tufaceo la Gaiola, di fronte a Posillipo. Oggi in rovina, tutti i suoi proprietari, forse per un maleficio risalente ai riti negromantici di Virgilio o per il sadico Pollione che dava in pasto alle murene i suoi servi maldestri, hanno fatto una brutta fine. Come il diciannove novembre 1926, quando una notte di tempesta, Hélène, la bellissima convivente del medico tedesco Otto Brumbach, finisce in mare e muore annegata. Al mattino ritrovano il corpo del medico misteriosamente avvolto in un tappeto, un colpo di rivoltella alla tempia. Il barone Langheim, durante il suo periodo a Villa Jella come alcuni l’hanno ribattezzata, sperpera tutti i suoi averi al gioco e finisce sul lastrico. Gianni Agnelli, dopo alcuni affari andati male, si libera della villa che passa al miliardario Paul Getty, il cui nipote viene da lì a poco rapito. Nel 1978, la villa e l’isola passano a Gianpasquale Grappone, detto Ninì, la cui compagnia di assicurazioni crolla e lui finisce in carcere travolto dai debiti. Lo stesso giorno della messa all’asta della villa e dell’isola, la moglie Pasqualina muore in un incidente stradale schiantandosi contro un albero.

All’ombra di un pino silvestre, una signora grassa, su uno dei due tavolini da picnic tipo area di sosta, da sola, si mangia di tutto. Al tramonto, seduto sul margine del tempietto, nonostante il brusìo autostradale, sono travolto dalla quiete emanata da questa prospettiva lemanica.