Il Maurizio Costanzo Show

/ 20.03.2023
di Aldo Grasso

Quando muore un personaggio della tv, uno di quelli che ti hanno tenuto compagnia per molti anni, è come se morisse un parente, tale è il cordoglio universale, tali sono le commemorazioni e i ricordi, anche di chi lo ricorda per ricordare sé stesso.

Il grande merito di Maurizio Costanzo è di aver introdotto in Italia un genere, il talk show, e di aver creato una grande alchimia di successo, mettendo assieme l’alto e il basso, il trash e la tv impegnata. Quando nel 1976 iniziò a condurre Bontà loro, probabilmente pensava di riprodurre in video quello che da anni faceva in radio con Dina Luce a Buon pomeriggio: intervistare le persone per trarre loro confessioni non scontate. E invece la tv era una ribalta diversa. Se ne accorse subito: «Fare televisione è un fatto liturgico, è come dire messa». Ecco, l’immagine del prete laico è quella che meglio si attaglia a un uomo che ha confessato mezz’Italia e considerava il “privato” altrettanto importante della politica, dei temi sociali. Quando a Bontà loro chiudeva simbolicamente una finestra sembrava voler dire «lasciamo il mondo fuori» e scaviamo dentro l’anima degli ospiti per conoscerne i loro piccoli segreti.

Ma è con il Maurizio Costanzo Show che la sua tv diventa subito la rappresentazione di un immaginario collettivo, di una nuova forma della commedia all’italiana di cui il conduttore non era solo il burattinaio. No, era parte della recita, era personaggio lui stesso: lo zio buono («boni, state boni!») ma anche perfido alla bisogna, l’amico del cuore ma anche antipatico, sornione e cinico, mai piacione e però corteggiatissimo perché un’apparizione in quello show poteva valere una carriera.

Più che interviste, le sue erano sedute di autocoscienza collettiva, una rappresentazione che non disdegnava alcun argomento, alcuna esibizione, alcuna mattana. Sotto l’abile regia di Costanzo sono andati in scena l’impegno civile (come nella staffetta, realizzata nel 1991 assieme a Samarcanda, in onore di Libero Grassi, l’imprenditore siciliano ribellatosi ai ricatti mafiosi e per questo assassinato), ma anche un cicaleccio futile ed evasivo, scandito dai contrappunti pianistici di Franco Bracardi, in frac variopinti. Il palcoscenico del Costanzo Show ha raccolto testimonianze importanti (come quella del giudice Di Maggio) e le confessioni eclatanti dei protagonisti dello spettacolo (memorabili gli interventi di Carmelo Bene), della politica, della vita quotidiana, regalando visibilità a giovani attori, a protagonisti dimenticati, a sgargianti starlet e confermandosi un’inesauribile fucina di debuttanti, a cominciare da Vittorio Sgarbi.

Perché, con il tempo, un genere così centrale per la storia della tv è degenerato? Il talk show si sta mangiando la realtà, riducendo tutto a chiacchiera. Attraverso una congerie di parole, il talk cambia la nostra percezione della realtà, altera la costruzione di un sapere sociopolitico, complica, drammatizzandola, la gerarchia delle necessità.

Il talk show è parola che si fa spettacolo, come vuole tradizione drammaturgica: è una necessaria semplificazione delle idee, è una fatale iniezione di populismo, è un esplicito incitamento alla forte contrapposizione. Come dicono gli psicoterapeuti televisivi, oggi tutto è “narrazione”, “storytelling”. Certo, tutto è narrazione, ma nelle logiche del talk questo significa che una parola vale l’altra e l’unica strategia è quella di spararne tante (di parole), in una escalation sempre più ridondante, in modo tale che l’ultima faccia dimenticare quelle precedenti. Nei talk, la narrazione ha il solo scopo di “fare opinione”, di conquistare l’assenso del pubblico: è il genere che diventa attore principale.

Se è vero che i talk show sono stati la fucina di nuove forme di rappresentanza, se il mito della trasparenza (le case di vetro si nutrono della retorica dei talk) è ormai carta inservibile, resta il fatto che la lingua dei talk (e della politica) avrebbe bisogno di regole condivise per il bene della democrazia, come ha spiegato Mark Thompson (ex direttore della Bbc e Ceo del «New York Times») nel libro La fine del dibattito pubblico (Feltrinelli): le istituzioni e i media non dovrebbero mai prestare la loro autorevolezza alla partigianeria politica. E quando il linguaggio delle istituzioni degrada, il danno si sente ovunque. 

Temo però che il sogno di talk civili e non rissaioli non si avveri mai. Per sua natura, il talk show è una contrapposizione e semplificazione delle idee, è un esplicito incitamento alla rissa. Come ha scritto Walter Siti, «il talk è uno spettacolo ibrido, che non consente ai singoli personaggi di controllare fino in fondo la propria parte. È un po’ reality, un po’ soap, un po’ luna-park (anzi, tirassegno), un po’ improvvisazione e un po’ commedia… Insomma, i contenuti specifici valgono meno dell’effetto generale». E, dopo Costanzo, l’effetto generale resterà sempre quello di un gruppo di persone che si scannano per aver ragione.