Nelle scorse settimane la Commissione formazione e cultura del Gran Consiglio ha proposto di bandire l’uso degli smartphone dalla scuola. Il tema sta suscitando commenti di natura diversa. Ci si interroga sul senso della proibizione, sull’effetto controproducente di ciò che potrebbe essere percepito come punizione. Altre voci sembrano invece riconoscere il valore di questa misura che servirebbe a relativizzare una presenza ormai preoccupante nella vita dei giovani, e non solo.
Gli interrogativi, pur suscitando risposte diverse, a me paiono alimentati da uno sguardo comune sul senso della scuola.
Succede sempre quando interroghiamo la realtà per comprenderla: per porle domande che abbiano un senso dobbiamo averne già un’idea. Interroghiamo la realtà, insomma, a partire dal nostro sguardo.
Questo rapporto tra il nostro sguardo e la conoscenza della realtà è ben visibile nella storia della scienza. Aristotele, che ha nutrito quasi duemila anni di pensiero scientifico, vedeva l’universo come un grande organismo con sue finalità intrinseche: «La natura non fa nulla invano».
E così, per comprendere davvero, era necessario interrogarsi sulla causa finale: qual è il fine per cui tutto accade?
Galileo, guardando la stessa natura, vedrà un «grande libro scritto in lingua matematica». A partire da questo nuovo sguardo, la conoscenza richiederà altre domande. La ricerca della causa finale perderà il suo valore scientifico poiché in questo universo matematico le cause di ciò che accade non hanno più nulla a che vedere con i fini.
C’è dunque sempre uno sguardo da cui nascono le nostre domande.
Lo sguardo sulla scuola che alimenta oggi i nostri interrogativi mette in evidenza la sua utilità: la scuola deve essere uno strumento utile che sappia rispondere ai bisogni della società.
E ciò non stupisce. L’utilità sembra oggi il criterio assoluto per stabilire il valore di ogni cosa e di ogni esperienza. In realtà, però, le cose utili sono solo mezzi per qualcos’altro, non trattengono in sé alcun valore. Il valore, il senso intrinseco delle cose, scivola via in una catena infinita di mezzi che impoveriscono la nostra esperienza, senza permetterci di percepire il vero significato di ciò che stiamo vivendo. Questo sguardo fortemente utilitaristico rischia di offuscare anche il senso della scuola.
Proviamo allora ad aprire un altro possibile sguardo. Proviamo a guardare la scuola come un luogo di progettualità, magari anche come un luogo di resistenza, capace di stare anche un po’ altrove rispetto al mondo esterno e ai suoi bisogni più urgenti.
È forse soprattutto questo il suo significato e il suo valore, in ogni epoca. Penso al Giardino di Epicuro, una scuola in cui imparare a vivere bene, in cui curare le malattie provocate dalla società. La celebre lettera a Meneceo parla ancora anche a noi, delle sofferenze di oggi, delle nostre paure, delle nostre prigioni morali e materiali. Poi penso ad un’altra esperienza educativa come forma di resistenza ai mali della società: l’educazione di Emilio raccontata da Rousseau. Emilio viene educato lontano dal mondo, in un altrove incontaminato, nella natura e nella naturalezza del suo lento sbocciare.
Ecco allora emergere la figura del Maestro, di colui che indica il cammino per una vera libertà interiore, di colui che desidera accompagnarti in un progetto di umanità.
Perché la scuola deve insegnarti a vivere. E «insegnare a vivere» è proprio il titolo di un recente saggio di Edgar Morin.
Bello sarebbe correggere il nostro sguardo utilitaristico per vedere e per chiedere altro alla scuola.
Per ritrovare e per valorizzare, innanzitutto, la figura del Maestro, figura dimenticata purtroppo sempre più sullo sfondo di aule tecnologicamente arredate in modo sempre più performante, perché ciò che conta, a quanto pare, è stare al passo con i tempi.
Proviamo a correggere il nostro sguardo utilitaristico per vedere la bellezza di un’esperienza condivisa della conoscenza: esperienza di sé, da vivere con calma, da condividere nelle sue emozioni e nei valori che ci offre, liberati dall’urgenza di acquisire conoscenze utili, immediatamente spendibili. E per vedere la bellezza anche nella fisicità dei suoi spazi, e delle sue presenze: una fisicità a rischio nel nostro abitare un mondo sempre più virtuale.
In queste atmosfere di bellezza, forse, lo smartphone te lo puoi anche dimenticare per un po’, conquistato dal piacere di viverle e dal desiderio di poterle condividere con gli altri, in quello che impari a riconoscere come il viaggio verso te stesso.