Il linguaggio del valore

/ 12.10.2020
di Lina Bertola

Non sono passate inosservate le recenti valutazioni del Consiglio della magistratura in vista del rinnovo della carica dei procuratori pubblici. Anche la scuola, avvalendosi di ricercatori della SUPSI, ha recentemente proposto una valutazione della sua gestione durante l’emergenza sanitaria.

Sono solo due esempi di procedure ricorrenti che rinviano ad un aspetto costitutivo, e perciò irrinunciabile, della nostra esperienza, ovvero al bisogno di valutare. L’atto del valutare è un linguaggio che ci accompagna e ci attraversa in ogni situazione della vita. Non sempre ce ne accorgiamo ma ogni evento, anche minuscolo, comporta una implicita, spesso silenziosa, valutazione. Incontro una persona, osservo un paesaggio, leggo una notizia: circostanze del tutto fattuali come queste sono sempre attraversate da un giudizio di valore.

La cosa non deve sorprendere, è solo un segno di come il valore sia intrinseco alla vita. Ce lo ricordano anche le splendide parole di Hans Jonas. La vita, ricorda il filosofo, è la destinataria di un sì: deve continuamente scegliersi per riaffermarsi. Proprio la mortalità intrinseca alla vita è quella porticina stretta da cui, in un universo altrimenti indifferente, è entrato il valore.

Ma dove nasce il linguaggio del valore che si sovrappone sempre al significato concreto di ciò che mi sta capitando? In un orizzonte di valori più o meno condivisi di un’epoca o di una cultura? Oppure nasce da un mio sentimento intimo e personale del valore intrinseco alla vita?

Queste due percezioni si intrecciano e corrispondono ad una condizione costitutiva dell’umanità: quella di poter scegliere in prima persona il proprio viaggio esistenziale dentro un mondo che esiste comunque, indipendentemente dalla mia presenza. Il valore che percepisco dentro di me e i valori che nutrono il mio stare al mondo insieme agli altri. L’etica richiederebbe sempre un armonioso equilibrio tra questi due aspetti: è un invito ad ascoltare il valore intrinseco alla vita, che ci interpella in prima persona, pur sapendoci partecipi di un mondo con i suoi valori condivisi o comunque condivisibili.

Non c’è dubbio tuttavia che oggi il linguaggio del valutare ci raggiunge in modo sempre più pervasivo dall’esterno. Spesso è il mondo che abitiamo a dirci chi siamo e quanto valiamo. Dalle valutazioni professionali ai «mi piace» sui social, fino al verdetto dei braccialetti/orologi che misurano e giudicano le nostre prestazioni sportive. Senza toppo rendercene conto ci adeguiamo, qualche volta addirittura ci affidiamo a modelli di comportamento proposti dall’esterno. L’effetto di questo meccanismo è quello di soffocare l’esperienza intima del riconoscere in noi il valore del nostro agire e il valore delle nostre scelte, esperienza che è la sorgente dell’autonomia, ovvero della forma più autentica di libertà.

Questo prevalere dei valori sul sentimento personale del valore è solo la punta dell’iceberg di una questione più profonda che concerne il nostro attuale modo di stare al mondo. In realtà è sempre stato così, il peso dei modelli di comportamento, con i loro pervasivi condizionamenti, ha una lunga storia, forse infinita. Ma oggi suona un po’ come un paradosso vista l’enfasi con cui guardiamo al presente come all’epoca delle conquistate libertà, in ogni espressione della vita.

Al di là del grande e ormai risaputo inganno consumistico, lo iato sempre più profondo tra aspettative di libertà e di autorealizzazione e condizionamento sociale sta provocando molta sofferenza, soprattutto tra i giovani. A ragione il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag riconduce questa sofferenza ad una perdita del legame con sé stessi, ad una rottura con gli strati profondi che strutturano il nostro essere. E questo sarebbe dovuto proprio alle grandi pressioni della società, alla cultura della performance che con i suoi giudizi di valore agisce profondamente sulla costruzione di identità per così dire artificiali; il mantra dell’efficienza e della performance costruisce artefatti, identità del tutto esteriori. Benasayag, con un’espressione molto efficace, chiama queste identità esteriori l’esoscheletro che lega dall’esterno quello che dentro di noi è in frantumi. E conclude con evidente preoccupazione: «Questa cultura chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro di un’impresa».

Nelle parole di chi per professione si confronta con la sofferenza dei giovani possiamo leggere l’invito a resistere, cercando di restare in compagnia del proprio mondo interiore. Perché solo lì il linguaggio del valore mi parla davvero e mi indica la strada per divenire ciò che sono.