Oltre a lavarmi le mani dodici volte al giorno, oltre a impegnare ore sul lavandino d’acciaio della cucina per renderlo lucido e privo di aloni, oltre a indossare la mascherina come Zorro prima di saltare sul cavallo e uscire di casa, ci sono diverse altre cose che non avrei mai fatto senza la pandemia. Per esempio, guardare su Netflix le serie tv: deludenti secondo i miei gusti.
Atypical è quella che mi ha convinto di più (5+) tra le serie interminabili (interminabili per me): la storia di un ragazzino autistico che sogna un amore e un futuro dentro una famiglia americana (con madre, padre e sorella) agitata da infedeltà, bizzarrie quotidiane, ansie eccessive. Poi viene Prison Break tutto azione, thriller carcerario, fantapolitica e amori impossibili (5–).
Nella mia personale (e parziale) classifica, segue il gotico-fantasy-horror Stranger Things (4½). Amici molto fidati mi hanno consigliato Breaking Bad, un racconto in sé affascinante: fantastica idea, recitazione meravigliosa, scrittura super (totale 6), ho cominciato a guardarlo con entusiasmo finché mi sono addormentato irrimediabilmente alla quinta o sesta puntata.
L’impressione, sempre, è che le serie siano troppo lunghe. Una sorta di coazione a ripetere che ti imprigiona al consumo e alla visione. Senza dire della serie più gettonata (a quanto pare), La casa di carta, la vicenda di una rapina alla Zecca di Stato spagnola, ordita dalla mente geniale di un Professore e realizzata da una squadra di professionisti del crimine nascosti dietro una maschera di Salvador Dalì: sopportabile (4½) solo nella prima stagione, poi paradossale fino alla caricatura (3–). La lunghezza e l’iperbole non giovano mai.
Fossi un editor, consiglierei di sforbiciare e ridurrei le puntate dell’80 per cento. Ben sapendo che lo scopo delle serie è proprio quello di cavalcare un successo (quando c’è) fino allo spasimo e allo sfinimento degli sceneggiatori, degli attori e del pubblico, che comunque rimane incollato per quel guilty pleasure (il «piacere colpevole») evocato tante volte da uno studioso dei meccanismi televisivi come Aldo Grasso. Ma anche in tempi di coronavirus, come diceva Totò, «ogni limite ha una pazienza».
Una seconda cosa che non avrei mai fatto senza la pandemia è leggere ad alta voce quasi ogni sera, con mia moglie e mia figlia Maria (13 anni), quel capolavoro che è Oliver Twist di Charles Dickens: anche questo, una serie (non televisiva ma letteraria), un cosiddetto feuilleton pubblicato a puntate tra il febbraio 1837 e l’aprile 1839, ma che mai e poi mai ha dato, alla lettura, l’idea di intollerabile bulimia e abbuffata nauseabonda che danno certe fiction televisive. Eppure, il meccanismo è lo stesso: trama avvincente, ripetizione, tratti psicologici semplificati eccetera.
Può darsi che il mio sia un rifiuto biologico o sia viziato dal pregiudizio culturale, eppure diffido di quelli che affermano con malcelato orgoglio: in casa non ho il televisore. Alessandro Bergonzoni (5½) sostiene che la televisione va guardata ma non accesa. Personalmente mi sono convinto che la tv vada accesa ma non guardata, e piuttosto ascoltata nel sonno. Potrei far mia la famosa ammissione di Ennio Flaiano (6): «La televisione mi fa dormire e mi lascia sempre insoddisfatto, come i veri sonniferi». Con qualche eccezione, però.
Infatti, la terza cosa che non avrei mai fatto senza la pandemia è stata: cullare la nostalgia guardando vecchie partite di calcio. L’altra sera, da interista impenitente, mi sono goduto in bianco e nero (i colori della Juve, ahimè!) una storica finalissima di Coppa dei Campioni (non ancora Champions League…): quella giocata il 27 maggio 1964 al Prater Stadion di Vienna tra la mia beneamata squadra e il Real Madrid. Vinse l’Inter per 3 a 1, il ventunenne Sandro Mazzola (6) segnò due gol, il vecchio asso Alfredo Di Stefano (6), detto la «Saeta Rubia», fu oscurato da un gregario di nome Tagnin (6+), che lo «francobollò» in modo impeccabile. In realtà, oltre alla nostalgia per quella Grande Inter della mia infanzia (6+ all’Inter, 5– all’infanzia) la cui formazione (Sarti, Burgnich, Facchetti…) vale un doppio settenario petrarchesco, c’è l’ammirazione per uno stile umano in cui tutto sembrava più sobrio e composto di oggi: gli abbracci, i festeggiamenti, le frasi, i gesti. Una moderazione e un equilibrio che si oppongono all’esaltazione furibonda a cui assistiamo nei campionati dei nostri giorni, con gli urli, le ammucchiate, i protagonismi, gli impazzimenti, gli esibizionismi di creste e tatuaggi. Peggio ancora se confronto gli ululati e i latrati dei telecronisti contemporanei con i toni mesti, sempre sottovoce dello speaker dell’epoca, Nicolò Carosio, anche nelle fasi più esaltanti. Certo un po’ noioso e didascalico, ma essenziale e pacato: «bella la falcata di Facchetti», «altra stangata di Jair quasi a fil di montante», «si procede con molta prudenza su un fronte e sull’altro», «il cielo si è fatto oscuro e la luce artificiale si dimostra insufficiente per una circostanza del genere». E mi chiedo se uno dei guai del nostro tempo non sia proprio l’esagerazione che uniforma gli autentici capolavori e le marchette, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il grave e il fatuo, la luce del cielo e quella artificiale.