Il libro dell’alpe

/ 09.12.2019
di Orazio Martinetti

Alpi e alpigiani sono spesso oggetto di alati lirismi. La versione di chi vive quest’esperienza, o l’ha vissuta, differisce assai da chi la osserva dall’esterno, per interposta persona. Lo sguardo indiretto tende ad abbellirla e a coglierne solo l’aspetto romantico o bucolico; a volte con venature nostalgiche. La questione non è nuova; in campo letterario prende avvio nel 1922, con Giuseppe Zoppi e il suo Libro dell’Alpe. Un romanzo che piacque ai cittadini, meno ai montanari. Già nel 1933, con i racconti Quando tutto va male, Guido Calgari, che al mondo rurale era vicino per biografia e sensibilità, volle espressamente contrastare la visione data dallo scrittore di Broglio: «a spingermi a narrare sventure fu poi un moto di reazione contro l’idillio del Libro dell’Alpe, tutto festa e purezza e felicità». Nel 1964 anche Plinio Martini avvertì l’esigenza di proporre una «contro-narrazione» in funzione anti-Zoppi, colpevole di aver trasfigurato l’aspra vita sui monti della Lavizzara: «proprio qui a Rima ricordo di averlo visto tanti anni fa, e guardato con ammirati occhi adolescenti nella dirittura di un indice teso: quello è Giuseppe Zoppi. Stava seduto sul prato, felice, camicia bianca, cravatta e scarpe di vernice; con chi parlasse non so: dei pari suoi credo, professori, ammiratori, gente di città comunque ostentatamente tale; ma riascolto divertito la sua risata gaudiosa e improvvisa come uno strappo di campanella, e ricordo ancora bene la donna biancovestita che gli stava al fianco, tanto diversa dalle contadine che ero abituato a vedere».

Erano le ombre di un mondo che lasciava poche vie di scampo alle popolazioni di montagna; lo colse con rara efficacia nel secondo dopoguerra Alina Borioli, nella poesia Ava Giuana d’Altenchia, dolente canto funebre di una civiltà aggredita da un destino crudele: i dispersi sulle montagne, gli annegati nel lago Ritom («sei in una volta sola»), i congelati sulle cime, le vittime delle valanghe.

Nell’accostarsi alla vita alpestre occorre dunque farsi guidare da tatto e misura; scrutarla da tutti i lati e non lasciarsi sedurre dalla sola faccia dell’incanto. I numerosi studi usciti negli ultimi decenni, frutto della competenza e della passione di storici, etnografi e glottologi, hanno messo in guardia dalle facili idealizzazioni arcadiche. Ci limitiamo qui a ricordare l’opera di Mario Vicari con i suoi Documenti orali della Svizzera italiana, capolavoro di meticolose indagini sul terreno e di competenza linguistica.

I chiaroscuri di questa epopea alpina, che ancora resiste in molte parti dell’alto Ticino, sono presenti anche nel volume su Piora (Un alpe, una valle, una storia), appena edito da Salvioni con un’introduzione di Fabrizio Viscontini sulle origini del pascolo e del sistema corporativo che lo regge tuttora. I curatori, alle pagine 228-229, ripropongono anche la poesia della Borioli, che quando fu presentata al concorso indetto nel 1955 dalla rivista «Il Cantonetto» diretta da Mario Agliati «sollevò a dir poco una tempesta. Non mai vista un’atmosfera simile, per un avvenimento che non fosse sportivo o politico». Quegli sventurati non furono i soli, purtroppo, a perdere la vita in quel comprensorio, tanto maestoso quanto infido al mutar del cielo e delle stagioni.

Il libro si raccomanda per il largo ventaglio tematico (toponomastica, botanica, biologia, geologia), per le testimonianze raccolte e per la nutrita sezione di immagini, sia a colori che in bianco e nero. C’è la Piora (femminile) come vallata, ritratta d’estate e d’inverno, ma c’è soprattutto il Piora (maschile) come alpe e come formaggio, la vera ricchezza di questo «parco nazionale» sui generis, che si potrebbe anche candidare a patrimonio Unesco.

Ovviamente anche lassù è giunta la modernità, portata dalla carrozzabile e dalla funicolare, dagli impianti idroelettrici e dagli stabili per il bestiame, le caldaie e le mungitrici elettriche. Tuttavia le innovazioni sono rimaste discrete e non invasive; non hanno rivoltato e sfigurato il paesaggio, che rimane uno dei più ammalianti del cantone. In altre aree alpine si è imboccata una strada diversa, con alberghi, discoteche e impianti di risalita, trasformando il territorio in luna park o in lussuosi insediamenti per le classi agiate. In val Piora non è successo, per fortuna. Cosicché il gitante può rigenerarsi tra conifere e laghetti, in armonia con i ritmi della natura, mentre nel fondovalle scorre il traffico europeo, nella confusione di cantieri, frastuoni e colline di materiali di scavo.