Il lettore di contatori

/ 05.10.2020
di Bruno Gambarotta

A proposito dell’esame di maturità. Per chi si diplomava da perito industriale nei primi anni 50 c’erano due strade possibili in attesa del posto sicuro: vendere assicurazioni contro il furto o fare per tre mesi il letturista del gas. La mia carriera di assicuratore è finita quando ho esaurito la cerchia dei parenti che per pietà mi avevano sottoscritto le polizze.

Il mio compagno Felice aveva scelto la seconda opzione. Raccomandava agli amici: «Per favore non dite a mia mamma che io vado in giro nelle case a leggere i numeri sui contatori delle centraline del gas, lei crede che io faccio il letturista. Cioè lo faccio veramente ma lei pensa che sia un’altra cosa. Succhia questa parola di cui ignora il significato come se fosse una caramella. È il lavoro giusto per te, dice, da piccolo ti è sempre piaciuto leggere. L’ha subito detto alla vicina e lei: meno male che Felice non deve andare in giro nelle case a prendere i numeri dei contatori del gas. Quelli sono esposti a tutte le tentazioni, bisogna essere dei santi per non cadere nel peccato. Ha presente la signora Margherita, quella cicciona con i capelli color carota, della tintoria qui di fronte? Quando arriva l’uomo del gas a prendere i numeri, prima lei lo fa entrare poi chiude a chiave la porta sulla quale appende il cartello del torno subito. Torno subito lo dici a tua sorella, brutta maiala porca. Capace che passano anche venti minuti prima che tolga il cartello e faccia uscire il suo ganzo del gas che si sta ancora allacciando i pantaloni.

Devo riconoscere che quest’idea che si fa la gente del nostro lavoro è abbastanza diffusa. Mio zio diceva: beato te, chissà quante casalinghe in calore ti porteranno in camera da letto a leggere il loro contatore. Anche i miei amici dell’oratorio la pensano così. Danno il via a una serie di racconti a luci rosse, tutti riportati da uno che li aveva ascoltati da un altro e questo a sua volta da un altro in una catena senza fine. E vai con la casalinga che ti apre la porta in baby doll, ti prende per mano, ti trascina in camera da letto e inizia a spogliarti. Sono tutte fantasie malate.

A me finora non è mai capitato, piuttosto ho trovato delle casalinghe che se arrivo all’ora di pranzo e se sono meridionali, mi costringono a sedere a tavola con loro. Pallido di carnagione come sono e mingherlino è probabile che, come direbbe uno psicologo della mutua, queste mie caratteristiche scatenino in queste matrone l’istinto materno. La prima volta è successo con una famiglia di sardi: sei stato fortunato, oggi abbiamo una specialità che trovi solo da noi, la pecora bollita. L’ha portata ieri nostro nipote dalla Barbagia. Come ha fatto? ho domandato, l’ha portata viva? Si sono messi a ridere, prima l’ha macellata e ha messo i pezzi nella valigia. Non me la sono sentita di dire che tendenzialmente sarei vegetariano. Mi hanno fatto sedere a capotavola e mi hanno servito la parte più pregiata di quella povera bestia, la testa. Mangia per primi gli occhi, mi hanno imposto, sono una prelibatezza. E poi le guance, la lingua, il cervello. Per giorni e notti ho creduto di sentire provenire dal mio stomaco dei belati di una pecora che chiedeva aiuto.

Come sai, sono astemio: potrei avere un po’ d’acqua? Ho chiesto. Ma quale acqua! Mi hanno riempito il bicchiere di Cannonau. A tavola con noi c’era anche Efisio, il vicino di pianerottolo. Anche lui sardo, pratica un simpatico hobby, distilla in casa il mirto, per fabbricare un amaro tipico della sua isola. Ne prepara trentadue tipi diversi, dai vicini ne ha portati solo sei tipi diversi e per non offenderlo ho dovuto assaggiarli tutti. Da quella casa sono uscito barcollando, non giurerei di aver preso i numeri giusti dal contatore di quella casa e di quelli visitati nel pomeriggio.

Tornato a casa ho subito informato mia madre: questa sera non ceno, non ho appetito. Apriti cielo! Ecco, io mi sacrifico a prepararti il passato di verdure, la tua bella minestrina e tu preferisci andare in giro a mangiare quelle porcherie di focacce fritte nell’olio di macchina! Lì per lì mi sono inventato una balla: un collega ha portato in ufficio degli involtini cucinati da sua moglie. Ah, sì, com’erano? Buoni, direi. Com’erano fatti volevo sapere. Mi sono ricordato di averli visti nella vetrina di una gastronomia: avvolti nelle foglie di cavolo c’erano degli impasti di pane olive carciofi pomodori secchi, uova sode. Fati dare la ricetta dal tuo collega voglio provare a farli.

Visto com’è andata, userò anche stasera la medesima scusa devo solo ricordarmi di andare davanti alla vetrina della gastronomia per farmi venire qualche idea. In una famiglia calabrese mi hanno offerto una loro specialità che non avevo mai sentito nominare. La chiamano ’nduja, una pasta di salame crudo e piccante da spalmare sulle fette di pane tostato. Chiamarlo salame non rende l’idea, sarebbe meglio dire una pasta di peperoncino con tracce di salame crudo. Mi sembra ancora di sentir friggere le radici dei miei capelli».