L’uomo è «migrans» fin dalla preistoria, leggiamo nelle enciclopedie. L’essere umano è nomade: viaggiare, esplorare, conoscere fa parte della sua natura. Ma come sono mutate le correnti nel tempo, cosa o chi le ha generate, quale direzione hanno preso, quali ostacoli hanno incontrato, come sono state accolte nei luoghi di destinazione? Negli ultimi decenni la ricerca ha esteso sia il campo d’indagine, sia gli strumenti analitici, evidenziando le peculiarità di ogni singola odissea migratoria, individuale e collettiva. Le nostre terre hanno conosciuto varie fasi, sin dai secoli medievali, con un’accelerazione dopo la costituzione del canton Ticino. Nel corso dell’età moderna, le frontiere erano permeabili e la mobilità elevata; per gli abitanti delle alte valli, in prevalenza maschi, era consuetudine «fare la stagione» nelle principali città europee, soprattutto italiane e francesi, per esercitarvi vari mestieri, umili (come quelle di spazzacamino o di vetraio) oppure blasonati, com’era il caso nel settore delle costruzioni e dell’arte. Con la graduale affermazione degli Stati nazionali tale libertà di circolazione venne meno; ai confini spuntarono le dogane, chi intendeva varcarle doveva esibire un documento d’identità e sottoporsi al controllo, sia in uscita che in entrata. L’emigrazione, per molti valligiani, da temporanea divenne permanente, in contrade agli antipodi dal paese natale (Australia, California, Argentina).
Se dovessimo allestire una mappa degli spostamenti interni ed esterni, vedremmo formarsi sotto i nostri occhi un fascio di fibre multicolori, una rete fittissima di nodi e relazioni bidirezionali. Imponente fu, tra Otto e Novecento, l’emigrazione dall’Italia verso la Confederazione, specie nei decenni successivi all’unificazione, un flusso impetuoso di manodopera, in cammino verso i grandi cantieri ferroviari o le principali città d’oltralpe in pieno boom edilizio, che si esaurì solo con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Il secondo grande esodo prese il via nel secondo dopoguerra, svuotando interi paesi del Nord-Est (Veneto, Friuli) ma soprattutto del Mezzogiorno, la «terra del rimorso» nella definizione dell’antropologo Ernesto De Martino: un fenomeno che presto si rivelò ben più articolato di quanto la società elvetica si aspettasse. Con le valigie di cartone rette da mani callose giungevano infatti anche dialetti, costumi, attese, speranze, orientamenti politici, credenze religiose, che anno dopo anno alimentarono una vivace e capillare vita associativa. Le autorità reagirono spesso in modo scomposto, sopraffatte dalle inaudite dimensioni degli arrivi. Nell’opinione pubblica insorse il timore dell’«Überfremdung», una presenza di elementi allogeni considerata insidiosa per l’integrità e la tenuta del carattere nazionale elvetico.
Le vicende familiari, le implicazioni sociali, amministrative, politiche e formative, gli snodi decisivi come quello rappresentato dalle iniziative Schwarzenbach hanno dato luogo nell’ultimo quarantennio a una ricca produzione storiografica. A tale crescita ha dato un contributo non secondario la casa editrice Donzelli di Roma. Già nel 2001 mise in cantiere una vasta Storia dell’emigrazione italiana suddivisa in due corposi tomi; recentemente ha avviato una nuova opera generale sotto il titolo Storia dell’emigrazione italiana in Europa, prevista in quatto volumi (nel frattempo è uscito il primo: «Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1789-1956)»). A questi si sono aggiunti, sempre da Donzelli, Dalla valigia di cartone al web. La rete sociale degli italiani in Svizzera e, da Carocci, Più svizzeri, sempre italiani. Mezzo secolo dopo l’«iniziativa Schwarzenbach». Il fatto significativo è che all’origine di tutte queste imprese editoriali troviamo figli o nipoti di immigrati, storici e sociologi ora attivi all’università di Ginevra e in altri atenei d’oltralpe: Toni Ricciardi, Irene Pellegrini, Sandro Cattacin. Studiosi che ora rendono giustizia ai loro genitori giunti a bordo di treni stracolmi attraverso il recupero di memorie e testimonianze. Opere dunque intese a saldare un debito che l’ala nazionalistica e xenofoba della società elvetica non ha mai voluto riconoscere né tanto meno onorare.