Dal suono di un sasso, scelto con cura secondo la forma e il peso, lanciato con una certa angolatura e la forza giusta, alcuni, nel Giura neocastellano, capiscono se sul ghiaccio si può pattinare. Rito tramandato da una generazione all’altra, della cui tecnica ancestrale sono depositarie, a Les Brenets per esempio, due famiglie: i Seitz e i Rieser. Pierre Rieser, in particolar modo, per più di mezzo secolo, è stato spesso il primo ad aprire il cammino a Les Brenets. Dove il pattinaggio sul Doubs è una delle centonovantanove tradizioni viventi svizzere che fanno parte del «Patrimonio culturale immateriale» dell’Unesco. Inconfessata passione – partita forse da un quadro di Brueghel e cristallizzata nel cuore con le sequenze iniziali di Julien Donkey – Boy (1999) di Harmony Korine, esplosa poi sul lago di Joux nei primi anni duemila con una mia ex una domenica incisa nella memoria tra gli stand del vin brulé sparsi sulla bianca superficie ghiacciata punteggiata di gente accorsa incantata – da anni aspetto che il Doubs ghiacci. Senza metterla giù troppo dura, un sogno realizzare un reportage pattinando sulla più grande patinoire naturale d’Europa. Eppure, gli ultimi inverni non inverni, non hanno permesso al fiume di frontiera serpeggiante tra falesie e pinete, di formare lo strato di ghiaccio necessario.
La notizia di una notte polare – ventun gradi sottozero – a La Brévine, riaccende le speranze. Da una parte perché Les Brenets, dove un paio di anni fa vi avevo portato a scoprire la misteriosa torre Jürgensen, dista solo sedici chilometri da La Brévine. Dall’altra perché a La Brévine, soprannominata «La Siberia della Svizzera» dopo il record assoluto di -41,8° C il dodici gennaio 1987, si trova un lago che vanta una grande tradizione di pattinaggio quasi al pari di Les Brenets. Lì sul lac des Taillères, ieri, attraverso la webcam, ho visto diversi pattinatori; mentre il Doubs fatica a ghiacciare come si deve. Perciò mi metto in viaggio prima dell’alba. Non posso lasciarmi scappare quest’occasione e così arrivo a La Brévine una domenica mattina tardi verso fine gennaio. Meno uno indica il termometro della fontana in piazza. Non entusiasmante, perdipiù nevica e la neve, dicono, appesantisce il ghiaccio che potrebbe rompersi e soprattutto nasconde le parti più esili. La neve ha coperto tutti i cartelli tranne l’unico che serve. M’incammino così a ovest del villaggio di neanche settecento abitanti, mangiando un croissant provvidenziale preso alla boulangerie in piazza che grazie al cielo fa anche il caffè da portare via. Alle undici e ventisei, dopo tre chilometri percorsi in una mezzoretta, avvisto il lago in lontananza con alcune figure sopra che m’incoraggiano. Chissà, vediamo, casomai pesco all’eschimese.
Parecchia gente, nonostante non sia la gelida giornata perfetta dove il lago ghiacciato è «noir du monde» come mi dice un vecchietto a spasso con il suo bel labrador nero di nome Ovomaltine. Alcune famigliole sono indaffarate a spazzare la neve per giocare a hockey. Altri si avventurano sul lago con gli sci di fondo. Altri ancora solo così, a piedi. È indubbio: c’è qualcosa di irresistibile, tra l’elettrizzante e il religioso, ad attrarre le persone a camminare sul lago trasformato come per magia. Come faccio ora sul lago ghiacciato di Les Taillères (1036 m), titubante all’inizio, poi più tranquillo. La verità è che camminiamo sull’acqua come Gesù. Lo specialista locale qui è Jean-Pierre Schneider, proprietario del Siberia Sport, ripreso ora dal figlio che ogni anno noleggia i pattini. Quest’anno hanno rinunciato per via del coronavirus. Una coppia di giovani pattina lungo la riva sud, quella che il signor Schneider considera la più sicura. La loro gioia mi contagia e non ci penso due volte a lanciarmi sui pattini nuovi di pacca, presi per l’occasione sapendo dell’assenza dello stand del Siberia Sport. Il vero miracolo forse è solo questa leggerezza, in contrasto con la durezza del ghiaccio. La neve è un po’ d’impiccio, certo, ostacola l’ebbrezza, ma i miei pattini appena affilati a regola d’arte fanno il loro mestiere e pattino felice fino alle sponde a ridosso delle pinete spolverate di neve. Sulla riva opposta c’è il gruppo di case che dà il nome al luogo: Les Taillères.
Continuando su quella strada, in due orette a piedi, si arriva a Les Verrières: il paesaggio del panorama Bourbaki, febbraio 1871. Tutto intorno ora si fa sempre più indistinto, inizia una tempesta di neve che sembra cancellare il paesaggio. Più che nel Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli (1565) di Brueghel siamo nell’espressionismo astratto americano. I bambini con i bastoni di hockey sono costretti a rincasare tristi. La giovane coppia invece continua gli arabeschi, lui più disinibito si pavoneggia buffo scimmiottando Michael Jackson, lei più impacciata sui pattini bianchi con il pelo, ride e cade beata. Scivolo sul ghiaccio dove negli anni settanta organizzavano dei rally e ricordo la mia ammirazione segreta preadolescenziale per Katarina Witt. Vengono a galla altri frammenti: la gente infatuata che avanza a gattoni sul lago ghiacciato russo in Bells from the deep (1993) di Werner Herzog, tentando di vedere la leggendaria città perduta di Kitež o sentire almeno i rintocchi delle campane sommerse. Semicancellato, intanto, il paesaggio intorno si distingue a stento, solo qualche traccia sfuggente, da leggere come in filigrana.