A Flims Waldhaus, entrate nel bosco. Se seguite la via asfaltata di rosso terra rossa dei campi da tennis con a fianco i lampioni in ghisa modello lungomare, dovreste arrivare al lift che vi porta giù. Cascasse il mondo, ci vado a piedi. Un sentiero che scende a destra indica anche il Caumasee, lo prendo al volo, una fine mattina d’inizio estate. Tra i rami degli abeti rossi, s’intravede il famoso turchese caraibico. In alcuni punti è più turchese di altri, come attorno all’isoletta in mezzo. Ed è abbastanza incredibile. Secondo la cromoterapia, il turchese, è il colore della generosità, ottimismo, sogno.
Oggi è gratis perché fanno dei lavori, sennò si paga come per entrare in qualsiasi lido. A pagamento, di solito, ci sono pure i lettini di plastica, pommes frites, pedalò. Mi dirigo nella direzione meno antropizzata. All’ombra di un peccio che domina l’insenatura in faccia all’isoletta, mi siedo appoggiando la schiena alla corteccia. La temperatura dell’acqua, c’era scritto all’entrata con lo stabilo boss blu, è di diciotto gradi. Due prendono il sole sulla zattera, a parte loro non c’è molta gente che nuota. Una fa un teatro per entrare. Subito in acqua, mica fredda, ideale. Sul mezzogiorno, un giovedì di giugno inoltrato, approdo sull’isoletta del lago di Cauma (996 m) che a fine Ottocento, per un periodo, apparteneva all’Hotel Waldhaus nato nel 1877 e immortalato in Youth (2015) di Sorrentino. La spa per gli ospiti una volta era questa qui. L’acqua del Cauma, gli abitanti di Flims, lo dicevano da sempre, è curativa per occhi, mal di schiena eccetera. Nessun endemismo isolano, solita flora vista anche sulla terraferma, più un paio di larici.
Torno al mio zaino e mangio mezzo chilo di albicocche. Cauma in romancio significa siesta, il sistema carsico sotterraneo che alimenta il lago è complesso e rimane, in parte, un mistero. Dicono ci sia una sorgente calda. Parto per il giro del lago. La ramina che imprigiona il lago della siesta è un mezzo dramma che finisce presto; affonda man mano nell’insenatura più stretta, dove oziano due gradevoli panchine in legno. Su questa sponda boschiva si può entrare benissimo a fare il bagno liberamente, inutile pagare l’entrata. A meno che non si voglia prendere seriamente il sole e così via. Il turchese s’intensifica o meno, a dipendenza della luce ma anche del fondale, credo. In questo angolo, un po’ in ombra, è comunque iperturchese. Una coppia e il loro pastore tedesco, su una panchina, si godono il pranzo al sacco. Degno di nota, il rosa timido e raffinato dell’orchidea di Fuchs, screziato geometricamente di porpora.
Passo via dalla terrazza un po’ così del ristorante, è un vero peccato che il progetto più epurato e mistico di Valerio Olgiati non sia andato in porto. Il suo studio da sogno lo si vede, dietro a un bel tiglio, sulla strada principale di Flims Dorf dove lì vicino, nella sua Casa Gialla che poi è bianca, vi avevo portato in gita qualche tempo fa. Lì ricordo una vecchia foto – che ha ispirato il celebre manifesto turistico del 1936 di Jules Geiger – con un tuffo ad angelo dal tetto dello stabilimento balneare in legno che c’era qui. Di colpo mi viene voglia di andare a vedere il pavillon del Waldhaus che mi è rimasto in testa dal film. Le due guglie jugendstil si stagliano con lo sfondo dietro della sacrale Crap da Flem, la montagna che sovrasta Flims e mi ricorda ogni volta molto la montagna sacra aborigena. La parte moderna con lo spaspettacolo dove Harvey Keitel a mollo con Michael Caine rimangono di stucco vedendo senza veli la modella rumena di cui ora mi sfugge il nome, è laggiù in fondo al prato. Preferirei però tenermi quell’angolo inesplorato, per un pomeriggio d’inverno con la neve magari o mai, chissà. E vado via senza neanche bermi un ginger ale in veranda che se avete tempo io lo farei.
Il lago di Cauma crea dipendenza. Adesso tiro dritto sull’asfalto, lift tutta la vita. Prima, per andare al Waldhaus – tra l’altro oggi toponimo per tutta questa zona di Flims dove c’è anche il set cinematografico di Hors saison (1992) di Daniel Schmid che è poi l’incantevole Schweizerhof (1903) dov’è nato il regista, la cui veranda vale altrettanto la pena per una sosta all’ora del té – ho preso il lift-funicolare. E l’inquadratura da dolly, salendo, è imperdibile. Dove parte il lift è il punto di vista epocale per catturare dall’alto quasi tutto il laghetto a forma di macchia d’inchiostro, l’isoletta, e godersi le varie sfumature di turchese schiarite dalla luce. Alla fine il turchese caraibico incanta così tanto, perché nel colpo d’occhio conta molto il contrasto con il contesto montano. In mezzo a un bosco quasi prevalentemente di abeti rossi, uno non si aspetta di certo quel colore tropicale. Inoltre c’è l’isoletta di mezzo, attorno alla quale si formano gli stessi aloni del mar dei Caraibi. Una vecchietta attraversa a rana il lago di Cauma. La sua forza curativa non è una diceria popolare, calma di sicuro, soprattutto adesso, quando è ancora più pomeridiano di prima. Con il sole delle cinque, faccio il morto e abbraccio con gli occhi la pecceta il cui profumo, toglie ogni dubbio su quasi tutto.