Per sua fortuna, l’Italia, politicamente malmessa, può sempre contare sulla risorsa di comici che, a ogni cambio di guardia, riescono a cogliere le caratteristiche dei nuovi governanti per tradurle in battute e sketch, che divertono, e non soltanto. Del resto, da Berlusconi a Renzi, a Salvini non è mancata la materia prima. Con un’eccezione, però, nel novembre del 2011, quando Montecitorio accolse una compagine insolita: un governo cosiddetto tecnico, presieduto da Mario Monti, professore di alto prestigio, e composto da affermati specialisti in giurisprudenza, statistica, demografia, finanza tributaria. Insomma, ambiti e persone con cui c’era poco da scherzare. Tuttavia, Rosario Fiorello ci provò, cavandosela con successo anche in quell’occasione. Commentando, in televisione, l’arrivo di una squadra ministeriale, tanto severa e meritevole, uscì con una battuta ormai storica: «La fotografia ufficiale del nuovo governo doveva essere a colori: ma, in pratica, è uscita in bianco e nero. Grigia».
E quel giudizio, spassoso e calzante, che ritraeva la politica del momento, a otto anni di distanza, ha finito per assumere l’inatteso significato di un rimpianto e persino di un riscatto. Cioè, il grigio, escluso dalla tavolozza politica, perché scialbo emblema di piattezza e insipienza, si ripropone, adesso, come un’auspicabile alternativa virtuosa. In questa lunga stagione, che ha visto il sopravvento di governi e personaggi più che mai coloriti, anzi sgargianti, sta crescendo spontaneamente l’insofferenza per gli arlecchini al potere. Basta, insomma, con Salvini che confonde spiaggia e parlamento. Ma non è il solo impegnato a conquistare l’elettorato, divertendolo.
Certo, per noi ticinesi, lo sguardo è puntato, con una sorta di «Schadenfreude», sui guai dei vicini di casa, coinvolti però in un fenomeno generalizzato, che non concerne più soltanto gli instabili paesi mediterranei, è ormai di dimensioni mondiali. La politica-spettacolo, indispensabile nell’era della comunicazione, doveva creare personaggi ad hoc, su scenari insospettabili. Intaccando addirittura l’immagine, sin qui idealizzata, della Gran Bretagna. E la folta schiera degli anglomani, cui appartengo, sta subendo i dolorosi contraccolpi dell’avvento di Boris Johnson, personaggio bifronte. Da un lato, capace di abbinare cultura e originalità, dall’altro un confusionario sedotto dal potere. Tanto da mettere in pericolo l’attività parlamentare. Dov’è finito il leggendario «British Style», fatto di compostezza e grigiore ? Se lo chiedono i tanti delusi, di fronte alle fotografie di un premier che, a Bruxelles, dialoga con i suoi omologhi, stravaccato, le gambe sulla scrivania o, esce dal 10 di Dowing Street, leccando un gelato, in cui è infilzata la bandierina inglese.
Inevitabili, in proposito, le allusioni alla somiglianza con Trump: non soltanto, per una questione di chioma gialla, ma per una rozzezza di stampo americano. Del resto, Boris è nato a New York. Tuttavia, fra i due una differenza c’è, e come. Ha tenuto a sottolinearla, John Burnside, docente universitario, sul «Guardian»: «Johnson scrive importanti libri di storia, Trump i libri neppure li legge».
Proprio in questo clima, saturo di esibizioni, si giustifica la nostalgia per il grigio, colore assente, o quasi, dalla tavolozza politica. Fu scelto, alla metà dell’800, dal tedesco Paul de Lagarde, quale simbolo di un partito liberale, subito scomparso. Mentre, nel frattempo, la realtà politica si tingeva di rosso, di nero, di bruno, simboli di successi con effetti rovinosi. Di fronte ai quali, un colore non primario, un’irrilevante sfumatura sembra contrassegnare buon senso e sicurezza.
Ora, di questa condizione, la Svizzera è spesso considerata un emblema. Non senza qualche ironia. Secondo un’indagine USA, il parlamento elvetico sarebbe il più noioso del mondo, contrassegnato proprio dal grigiore. Un grigiore dignitoso e ben funzionante che, però, non mette al riparo da cadute di stile. Sto pensando a un manifesto, vivacemente colorato: una mela rossa intaccata da vermi allusivi. Fa discutere: come vuole il cosiddetto bello della democrazia. Poco bello, in verità.