Il Grandhotel Giessbach a Brienz

/ 27.05.2019
di Oliver Scharpf

«So lala» c’è scritto su una vecchia cartolina delle cascate di Giessbach, trovata mesi fa al mercatino delle pulci in Helvetiaplatz a Zurigo, a proposito del tempo. Così così, come oggi. Anche se non vi nascondo la mia crescente stima per le giornate impopolari di primavera, inoltre le piogge di questi giorni fanno bene alle cascate. Risalente ai primi del Novecento, viaggiata, l’inquadratura è presa dal lago e ogni salto si accende di un colore effetto stabiloboss creato dai bengala. Si vedono anche due barcaioli nella notte, la funicolare, e il Grandhotel Giessbach. Sorto nel 1875 secondo i piani di Horace Edouard Davinet (1839-1922), sopravvissuto a un incendio nel 1883, salvato dall’abbattimento esattamente un secolo dopo grazie a Franz Weber (1927-2019) capace di raccogliere due milioni di franchi dal popolo svizzero, lo avvisto ora dal battello a vapore. Appollaiato lassù, verso fine maggio, quasi all’ora del tè. Quando il Lötschberg, piroscafo che tenta invano dal 1914 di essere in tinta con il turchese del lago di Brienz, sta per attraccare a Giessbach. Dove sbarco e salgo sulla più vecchia funicolare d’Europa in funzione. Nata nel 1879, tutta in legno spennellato di un bel rosso carminio, intersecando vertiginosamente il corso indiavolato della cascata, in cinque minuti porta ai piedi del Grandhotel Giessbach (665 m).

Un castello delle fiabe in stile chalet che svetta con le parti in legno color rosso mattone. Ruba la scena la prorompente cascata bianchissima di spuma che in diversi salti, scende giù come uno slalom speciale in mezzo al bosco. Un earl grey davanti al camino, sprofondato in una poltrona di velluto floreale. Piccoli gigli rosa a ogni tavolino, tre lampadari di cristallo, angioletti a ogni angolo del soffitto stuccato color meringa, abat-jour senape, una Ebe eburnea alle spalle del pianoforte nero. E soprattutto, là in fondo, tra due tende come un sipario, lo spettacolo delle cascate di Giessbach entra nel salone impreziosendo tutto di selvaticità. E poi via, fugace perlustrazione in giro. Nella hall d’entrata, dominata da un vaso enorme di gladioli bianchi e altri fiori blu, c’è appeso alla parete, un pensiero per il sessantacinquesimo compleanno di Franz Weber, nato a Basilea un ventisette luglio. «Il salvatore di Giessbach» è cesellato nel legno sotto il suo profilo in bassorilievo di bronzo con una chioma stile Harry Klein, l’assistente tontolone del commissario Derrick. Morto il due aprile scorso, vodese di adozione, da giornalista svagato a Parigi si converte nel 1965 in Engadina – salvando Surlej da una speculazione immobiliare disastrosa – ad ambientalista militante di fama mondiale. Il Lavaux, Delphi, Alpilles, sono alcune delle sue battaglie paesaggistiche vinte, oltre ad aver combattuto a fianco di Brigitte Bardot contro le stragi di cuccioli di foca. 

Il tavolo di biliardo, benché di una tonalità più scura, ben si accorda al colore del lago di Brienz che si vede dalle finestre. Un gigantesco quadro troneggia nella camera accanto chiamata sala Giron. Per via appunto di questo ingombrante dipinto di Charles Giron del 1905 con lottatori svizzeri sulle alpi. Giocando di sponda con lo sguardo, mi attira di più, in un angolo di un’altra sala, il ritratto di un uomo che sembra un maggiordomo stanco ma è l’architetto Davinet nel 1919, all’epoca direttore del Kunstmuseum di Berna. Il quadro è di Wilhelm Balmer e siamo nel salone Davinet tutto tappezzato di carta da parati damascata dove sono appesi quadri di una qualità inaspettata. Jungfrau im Nebel di Clara von Rappard (1857-1912) è un piccolo capolavoro segreto. Il suo autoritratto stralunato, in fondo alla sala, accanto alle porte di legno color gelato al pistacchio e vetri serigrafati, non è da meno. Era figlia di Conrad von Rappard, uno dei primi proprietari del Giessbach che ingaggia Eduard Schmidlin (1808-1890) – giardiniere tedesco nonché autore di Flora von Stuttgart (1832) e altri titoli tra i quali il lettissimo Die bürgerliche Gartenkunst (1852) diventato poi direttore dell’hotel – per rivoluzionare il rapporto tra passeggiatori e paesaggio. Passo sul ponte sopra la cascata. Più in alto, salendo nel bosco, si può camminare dietro, come faccio adesso senza guardare, avanzando a tentoni sotto la roccia.

A partire dal 1855 le cascate, verso sera, diventano una grande attrazione con battelli quotidiani da Brienz e Interlaken. L’artefice della loro sbalorditiva illuminazione notturna immortalata nella cartolina che ho in tasca, è un professore bernese di chimica diventato poi il guru dei fuochi d’artificio, Johann-Rudolf Hamberger. Dopo le nove scatta l’illuminazione attuale, ripristinata solo nell’aprile 2015, non a colori ma efficace. Illuminati sono anche i due maestosi faggi davanti all’albergo che ora, con certe luci accese delle centotrentasei camere, si staglia magico nel cielo serale come sagoma di forbicicchio. Piove a dirotto, scendo per il sentiero nel prato, la cascata fragorosa si è ingrossata ancora e dallo schianto rigenerante si alza un pulviscolo onirico. Il bosco, nel fascio di luce, diventa più fatato. Ronfata epocale, colazione super, piscina bio.