Dall’occhiuto osservatorio storico del vostro Altropologo preferito si intravvedono oggi due eventi simili e complementari, ma di segno contrario. Per quelle ironie che la Storia storieggiata si diverte a confezionare, si tratta di due casi di quello che il sommo Dante chiamerà il Gran Rifiuto, e che costerà la condanna eterna nella Commedia ad almeno due dei suoi protagonisti. L’altro Gran Rifiuto accadde, diciamo per fortuna, fuori tiro delle ire del Fiorentino che al tempo era già morto da due buoni secoli sennò, visti i precedenti, sarebbe stata una strage di condanne urbi et orbi. Una data fatidica il 13 dicembre: nel 1294 Papa Celestino V, poi San Celestino da Morrone, rassegnava le dimissioni e si ritirava in montagna a vita eremitica che gli avrebbe aperto le porte alla santità. Nel 1545 si apriva invece il Concilio di Trento che avrebbe chiuso le porte alla Riforma e – a detta di molti – rallentato, nel bene o nel male, la marcia della modernità.
«Basta, non se ne può più! Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo io propongo di eleggere Papa Pietro da Morrone, e facciamola finita!». Così un esasperato Decano del Collegio Cardinalizio, tale Latino Malabranca (nomen omen: sarà il nome di uno dei diavoli che tormentano i dannati nell’Inferno dantesco), dopo mesi di trattative inconcludenti per eleggere il nuovo pontefice. Fra le mani agitava una lettera del monaco eremita Pietro che esortava i Cardinali a dare alla Chiesa finalmente una guida, pena divini sfracelli contro l’incompetente inanità del Collegio. Pietro da Morrone era al tempo all’apice della sua popolarità di asceta in odore di santità. Nonostante i divieti, aveva fondato un suo ordine con sessanta monasteri e seicento monaci. I pellegrini lo braccavano su per le balze della Maiella di grotta in grotta dove si nascondeva per una benedizione e una preghiera. E lui su, sempre più su e ancora più in alto quando seppe che lo cercavano per portarlo a Roma a fare il Papa. A Roma non sarebbe mai arrivato. Confuso dagli intrighi di curia ed imbelle contro un Impero prepotente, si rese presto conto di non essere tagliato per quel mestiere. In consulta col Cardinale Benedetto Caetani (altro nomen omen per i secoli a venire) riuscì perlomeno ad imporre un decreto che rendeva possibile al Pontefice dare le dimissioni, evento fino ad allora fuori discussione. Caetani, grande intrigone opportunista, gli dette una spintarella. E così arrivarono le dimissioni. Il 13 dicembre 1294 dopo soli cinque mesi e otto giorni sulla cattedra di Pietro, Celestino scriveva: «… per il desiderio di umiltà, di una vita più pura, di una coscienza immacolata, per le deficienze della mia forza fisica, la mia ignoranza, la perversità della gente ed il desiderio di tornare alla tranquillità della mia vita precedente». Benedetto Caetani gli successe come Bonifacio VIII. Entrambe si sarebbero ritrovati nell’Inferno di Dante: l’uno per la «viltà» che lo spinse alla fuga, l’altro per una lunga lista di malefatte: speculino pure gli scaltri lettori dell’Altropologo.
Se Pietro peccò per viltà, i Concilianti di Trento due secoli e rotti dopo peccarono per sicumera e forse anche paura. Archiviata con verdetto di condanna e non senza strascichi e perplessità la vicenda di Maometto e dell’Islam per secoli in odore di eresia cristiana – e dunque recuperabile e consumatosi finalmente lo scisma con le Chiese d’Oriente col Concilio di Firenze del 1432 – stavolta toccò al movimento della Riforma andare a sbattere contro la tetragona inflessibilità di un establishment deciso a difendere fino alle estreme conseguenze un’ortodossia che, peraltro, veniva costruendosi più per reazione alle azioni e proposte altrui che per interna coesione. Molte ed autorevoli saranno le voci cardinalizie – primo fra tutti il giurista bolognese Cardinale Gabriele Paleotti – che non solo consigliavano prudenza nel condannare in toto le proposte della crescente, burrascosa e vivace galassia riformata, ma addirittura ne coglievano gli aspetti salutari per una Chiesa al passo coi tempi che stavano cambiando.
Ma tanto tuonò che piovve: il 13 dicembre 1545 si inaugurò il Concilio del Gran Rifiuto non solo della lettera delle Tesi Luterane, ma anche dello spirito di un mondo in cambiamento. Le conseguenze? Troppo presto per dirlo.