Il giornale, tradizione a rischio

/ 19.10.2020
di Luciana Caglio

È un rischio che ci concerne da vicino. La diffusione capillare di giornali locali, regionali e nazionali è stata una prerogativa prettamente elvetica. Tanto da assicurare al nostro paese un primato mondiale, condiviso con il Regno Unito, e invidiato all’estero. In proposito, Indro Montanelli amava citare un tipico arredo di bar e ristoranti svizzeri: i bastoni, in cui erano infilati i quotidiani, appesi a una sorta di albero. E non mancava di precisare che quei giornali venivano letti, in un rispettoso silenzio. Ora, il verbo al passato è d’obbligo. Non che quel rito sia del tutto scomparso. Ma ha subito gli influssi irremissibili di un’epoca che ha tolto al giornale di carta la sua autorevole centralità. Nel giro di pochi decenni si è trovato ad affrontare la concorrenza della TV e, in un crescendo sbalorditivo, di smartphone, tablet, social. Cioè, forme d’informazione e d’intrattenimento in tempo reale sul piano mondiale.

Che questa sovrabbondanza di mezzi abbia migliorato le conoscenze e la cultura degli utenti è un interrogativo che lascio agli addetti ai lavori competenti: critici, educatori, psicologi, moralisti e via enumerando. Per questioni di età, origine familiare, esperienza lavorativa, mi toccano, invece, sentimentalmente, le conseguenze sul mondo della carta stampata, costretta a un’incessante ridimensionamento e destinata, chissà, a scomparire. Nella Svizzera, patria di tante testate e tanti lettori, gli effetti sono vistosi. Rivoluzionari, nel caso del Ticino, dove, ancora negli anni 60, uscivano sei quotidiani, quattro di partito, uno della curia e uno indipendente. Esserne abbonati o lettori rappresentava un dovere civico e un’appartenenza identitaria. Certo, sul piano qualitativo, non erano esempi di buon giornalismo. Le convinzioni ideologiche non producono automaticamente begli articoli. Da questo punto di vista, la scomparsa dei quotidiani di partito non fu una gran perdita. Oltretutto, avvilivano la professione sottopagando i redattori. Oggi, sono rimasti due quotidiani, che lottano per cavarsela.

Ma anche oltre Gottardo tira la stessa aria: hanno chiuso testate importanti mentre altre hanno cambiato nome, impostazione e, soprattutto, aspetto. Il new look sta imponendo impaginazioni ariose, spazi bianchi, corpi tipografici più grandi, fotografie a colori e, negli ultimi tempi, disegni d’autore a tutta pagina. Come dire, il giornale si legge e si guarda. La tendenza alla piacevolezza visiva ha coinvolto quotidiani storici, NZZ compresa. In quanto ai contenuti, prevalgono inchieste, denunce, commenti, approfondimenti, temi da settimanale, affidati a specialisti e a firme internazionali. E si allarga lo spazio concesso alle opinioni dei lettori, per tenerseli buoni.

Si assiste a una competitività assillante: trovare il giusto equilibrio fra serietà e popolarità. Più che mai, il giornalista è messo alla prova. E vale sempre la definizione di Manlio Cancogni: «Non è uno storico né un filosofo, semplicemente un comunicatore, capace di esprimersi in maniera spedita e corretta». Semplicemente, si fa per dire: tanto più, quando la posta in gioco è alta, da ultima spiaggia.

C’è, tuttavia, chi sul futuro del giornale continua a scommettere, con competenza, impegno finanziario e passione civile. Riecco alla ribalta editoriale, Carlo De Benedetti, ingegnere, già patron di «Repubblica», doppia nazionalità italiana e svizzera, domicilio nei Grigioni e di casa anche a Lugano. Una volta ancora rincorre il sogno del quotidiano ideale: specchio dei tempi e guida morale. Ci riuscirà in un momento scombussolato e in un’Italia, dove la lettura non è uno sport dei più popolari? Lui ci prova. Il 15 settembre, è uscito «Domani», diretto da Stefano Feltri (nessuna parentela con il burbero Vittorio). E si presenta come esempio di giornalismo dell’ultima generazione, per aspetto e stile. Quindi, privilegiando il commento rispetto alla notizia, l’ironia rispetto all’aggressività, e valorizzando il linguaggio di foto e vignette. Tutto ciò, ovviamente, attraverso il filtro di un’ideologia riformista/progressista, non sempre condivisibile. Ed è, del resto, un sintomo di vitalità: il giornale può, anzi deve far discutere.

Da quest’esperienza sono esclusi i lettori in Ticino: «Domani» non arriva nelle nostre edicole ufficiali. Per procurarselo bisogna ricorrere al contrabbando, questa volta virtuoso, praticato da qualche outsider.