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Il gioco della seduzione

/ 12.02.2018
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia, 
come tutti quelli che le scrivono sono, a dir poco, disorientato e ora le spiego come mai.
Lei è entrata nella mia vita come un ciclone. Appena è stata assunta nel nostro ufficio, fatto di tranquilli colleghi (maschi) e di relazioni lavorative ormai diventate abitudini, tutti sono rimasti come elettrizzati ed è scattata una gara a chi l’avrebbe conquistata per primo. È stato un periodo molto eccitante tanto più che, alla fine, ho vinto io. Senza pensarci due volte ho disdetto un matrimonio imminente e gradito alle due famiglie per andare a convivere con lei. L’avessi mai fatto! Da quel momento è cambiata completamente: da allegra che era è diventata triste e annoiata, tutto le pesava. Finché, senza preavviso, mi ha annunciato che non era innamorata, forse non le era mai stata, che la convivenza non faceva per lei e che preferiva tornare dai suoi e trovarsi un altro lavoro. A quel punto anch’io, benché disperato, ho chiuso casa e sono tornato a essere figlio. Ma non mi rassegno, tanto più che lei m’invia messaggi erotici e, quando ci incontriamo, mi abbraccia appassionatamente e mi bacia sulla bocca. Non comprendendo il suo abbandono, sarei felice di accoglierla a braccia a aperte e di ricominciare a vivere insieme. Lei che ne dice? Grazie. / Max

Caro Max,
se ripercorri la tua storia, vedrai che i colpi di testa non pagano. Hai lasciato la tua fidanzata per un’attraente sconosciuta e ora ricevi pan per focaccia. È chiaro che entrambi siete rimasti irretiti nel gioco della seduzione, una dimensione stuzzicante, divertente, che ci fa sentire vivi e leggeri. L’arrivo di una fanciulla provocante in un gruppo di giovani uomini innesca, quasi automaticamente, una gara alla conquista. È una questione ormonale, ancor prima che psicologica. Ma quando la competizione si conclude e inizia la realtà quotidiana, le cose cambiano. 

Come sostengo nel libro Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme (Oscar Mondadori) non sono i grandi problemi a dividere le coppie, quanto l’attrito delle piccole incomprensioni, i bisticci e le disattenzioni: il frigorifero vuoto, il tubetto del dentifricio rimasto aperto, telefonare mentre si cena, non avere né tempo né voglia per ascoltare le confidenze dell’altro, confrontare il partner con i propri genitori. 

Se entrambi, dopo quell’infelice esperimento, siete tornati a vivere in famiglia, significa che vi sentite ancora figli, che non siete pronti per rinunciare alle comodità offerte da genitori compiacenti, che risolvono per voi tutte le questioni, lasciandovi la libertà di disporre del vostro tempo e di compilare, come meglio credete, l’agenda degli impegni e delle priorità.

«Convivere» significa rinunciare alla prima persona singolare «io», accettando di declinare il verbo «vivere» con il plurale «noi». Non è né semplice né immediato. Nulla va da sé: occorrono impegno e pazienza. Due qualità che sinora vi mancano. Mi sembra che la tua disponibilità ad accogliere «a braccia aperte» la fuggitiva appartenga più al registro della fantasia che a quello dei progetti concreti. Il fatto che, quando v’incontrate, lei metta in atto quegli atteggiamenti erotici e seduttori che ti hanno conquistato non rivela un reale cambiamento, un processo evolutivo, quanto una coazione a ripetere gesti che rimangono inappagati.

Il «bacio sulla bocca» che sigilla ogni vostro incontro non può essere preso sul serio. Va inteso piuttosto come il proseguimento di un gioco dove tutto si svolge, come nell’infanzia, in un tempo ipotetico, in uno spazio irreale: «facciamo che io ero...», dicono i bambini. È frustrante, lo so, ma devi convincerti, caro Max, di costituire per la tua amata una presenza attraente ma non impegnativa, anzi attraente proprio perché non impegnativa.

Per farsi coppia, occorre essere in due, mi sembra invece che tu sia solo a provare questo desiderio. Può darsi che un giorno anche la seduttrice torni sui suoi passi, ma sarà una decisione autonoma, non certo dettata dalla tua illimitata disponibilità. Colgo, nell’atteggiamento di resa che hai adottato, un senso d’inconscia onnipotenza come se bastasse dire: poiché voglio, posso. Ma non è così. Dobbiamo riconoscere che «l’altro è davvero un altro», che vi è una zona di segreto e di mistero che ci sfuggirà sempre e che le sue intenzioni possono convergere con le nostre ma non sempre e non necessariamente. La pazienza che ostenti è una virtù difficile. I bambini, quando hanno goduto di una soddisfazione, dicono: ancora. Ma da adulti bisogna saper cambiare e, dopo aver lavorato su di noi, dopo aver riconosciuto i nostri desideri, imboccare un’altra strada ammettendo, seppur con dolore, che quella interrotta era impraticabile.